Time Machine Reloaded #1 – L'alba di Codemasters

Abbiamo deciso di inaugurare questa versione Reloaded della Time Machine celebrando una delle più famose realtà d’Albione: Codemasters. Negli anni Ottanta non capitava ogni settimana di avere dodici/diciottomila lire in tasca da investire in un nuovo gioco, e l’alternativa alle cassette pirata passava per la rastrelliera dei giochi economici, dove un investimento di cinquemila lire era solitamente sufficiente a calmare i nostri giovani pruriti videoludici. Da quelle parti, il marchio Codemasters regnava sovrano, forte del carisma dei gemelli Richard e David Darling: se i loro nomi potevano risultare alieni agli italici avventori, in patria i due fratelli erano decisamente famosi, identificati in quella gioventù rampante di cui parlavano i tabloid, capace di intascare somme considerevoli grazie ai videogiochi. Tanto più che, all’estero, gli espositori di cui sopra non trovavano posto solamente nei negozi di computer, ma anche nelle edicole e in diversi supermercati, creando la condizione ideale per rendere il marchio Codemasters estremamente diffuso e familiare.

I due fratelli, prima del successo, erano soliti spostarsi un sacco a causa del lavoro del padre, coltivando strada attraverso la passione per l’informatica. A Vancouver l’amicizia con un ragazzo di nome Michael Heibert li portò addirittura a fondare la loro prima software house dal nome Darbert (Darling più Heibert, capito?), specializzata in rozzi videogiochi ispirati a successi arcade grazie alla significativa potenza digitale offerta dal poderoso Vic-20 del giovane amico, un bel passo avanti rispetto al Commodore PET del padre. Quando le peregrinazioni li portarono infine a rimettere piede in Inghilterra, la distanza non fu sufficiente a spezzare l’amicizia con Michael, con cui crearono l’etichetta Galactic Software dopo aver ceduto anche loro al fascino del Vic-20. Il successo giunse grazie a un’inserzione pubblicitaria sulle pagine della rivista Popular Computer Weekly, tanto da richiamare l’attenzione di Mastertronic, allora il più importante marchio legato ai cosiddetti budget game. Sotto tale vessillo la loro produzione crebbe in quantità e qualità, piazzando tante perle vendute a poco prezzo che, però, bastarono a renderli ricchi mentre erano ancora dei teenager: una condizione tale da convincerli ad abbandonare Mastertonic e creare una realtà tutta loro alla fine del 1986.

In modo analogo a tante software house nate in quel periodo pionieristico, Codemasters muoveva i primi passi come azienda a conduzione familiare

In modo analogo a tante software house nate in quel periodo pionieristico, Codemasters muoveva i primi passi come azienda a conduzione familiare, con il papà James e la sorella Abigail indaffarati nelle faccende amministrative mentre i due fratelli si occupavano di sfornare giochi. La decisione di continuare a percorrere la strada dei budget game era assolutamente naturale, riassumibile egregiamente con l’analisi fatta all’inizio dell’articolo: costavano poco ed erano venduti un po’ ovunque, un binomio che avrebbe permesso di creare una vera e propria fanbase. Quello di cui c’era bisogno era dunque la qualità, settore in cui i Darling sapevano il fatto loro. La nuova etichetta debutta infatti con BMX Simulator, un gioco di corse con visuale dall’alto dove il giocatore controlla delle piccole bici: è il seguito spirituale di BMX Racers (1986), scritto ai tempi di Mastertronic, e verrà convertito su una schiera impressionante di piattaforme, compresi i nuovissimi sedici bit, unendo a uno schema di gioco arcade una buona dose di fisica. Si tratta del primo gioco della linea Simulator, titoli che dei simulatori “veri” non avevano nulla, ma che portavano tale suffisso per essere immediatamente riconosciuti e ricondotti alla produzione dei Darling. Si trattava anche di una questione di gusti: sebbene molti dei programmatori incontrati durante la permanenza in Mastertronic avevano mostrato una decisa predisposizione a realizzare giochi ambientati tra le stelle, i fratelli ritenevano più intriganti quelli basati su concetti o attività realmente esistenti. Una regola non sempre valida però, giacché, andando avanti, i “simulatori” arrivarono a toccare vette di assoluta assurdità: nulla da dire riguardo a biciclette e macchine da corsa, ma quando ti trovi davanti SAS Combat Simulator (un clone di Commando, per la cronaca) la credibilità nei confronti della presunta simulazione è destinata a crollare come un castello di carte!

pare quasi paradossale pensare che, nel 1987, Dizzy avesse addirittura rischiato di non raggiungere gli scaffali

Detto questo, per i Darling la qualità era importantissima, e il massimo impegno andava profuso nella produzione dei singoli titoli, da curare alla stregua del software a prezzo pieno. Questo però voleva dire che, per ottenere guadagni consistenti, era necessario sfornare un numero di titoli massiccio affidandosi a una nuova schiera di abili programmatori che avrebbero affiancato i due fratelli. Molti nomi celebri della programmazione anglosassone mossero dunque i primi passi a Banbury nell’Oxforshire, dove Codemasters aveva aperto il suo primo ufficio; tra questi è importante ricordare Philip e Andrew Oliver, ovvero i celebri Oliver Twins, presenti all’appello con il famoso Super Robin Hood (1986) e il campione d’incassi Grand Prix Simulator (1987), nonché futuri creatori del fortunatissimo personaggio di Dizzy, un uovo antropomorfo protagonista di una serie di avventure dinamiche con elementi da giochi di piattaforme assolutamente fondamentale. Con una fama che arriva ai giorni nostri (un episodio mai pubblicato delle avventure di Dizzy ha visto la luce su internet grazie agli Oliver appena un paio di anni or sono) pare quasi paradossale pensare che, nel 1987, l’avventuroso ovetto avesse addirittura rischiato di non raggiungere gli scaffali, reputato dai Darling eccessivamente infantile per il ritmo pacato dell’azione e la relativa semplicità dei suoi enigmi. Eppure tutto era al suo posto: Dizzy doveva solo essere capito, sia dal suo publisher che dallo stesso pubblico che, dopo un debutto piuttosto tiepido, lo fece restare saldo nelle classifiche dei giochi più venduti per decine di settimane, con montagne di lettere che continuavano a presentarsi sulla scrivania di Codemasters implorando un seguito.

Bruce Everiss rese il voto dei due fratelli riconoscibilissimo presso i giovani

Il senso degli affari scorreva forte nelle vene della famiglia Darling, intenta non solo a mettere sul mercato un esercito di videogiochi di successo, ma anche nell’allargare il proprio bacino di utenza offrendo considerevoli premi in denaro a quei programmatori tanto abili da convertire i loro successi più incisivi sulle piattaforme richieste. Alla base di tutto c’era una solida credibilità, cementata dall’ottimo lavoro di Bruce Everiss, ex mente strategica di Imagine e vera e propria fucina di idee che, con una dirompente miscela di agganci e competenza, contribuì a rendere il volto dei due fratelli riconoscibilissimo presso i giovani, rendendo i Darling ospiti più o meno fissi di programmi per ragazzi e articoli apparsi su un’infinità di testate slegate dal mondo dell’informatica. E le riviste di settore se li contendevano, pronte a concedere pagine e pagine di interviste alle due giovani celebrità. In quegli anni incentrati sulle produzioni a basso costo c’è anche tanta voglia di osare grazie all’etichetta Gold, specializzata nella pubblicazione di titoli a prezzo pieno tra cui il leggendario Rock Star Ate My Hamster di Colin Jones, parodistico gestionale che, nel 1988, si divertiva a prendere in giro le maggiori icone pop-rock dell’epoca e, in generale, tutto quello che girava attorno al mondo della musica anni Ottanta. Un’idea in cui la software house credeva ciecamente, tanto da tempestare le riviste inglesi con decine di misteriose pubblicità raffiguranti bizzarre ma riconoscibili caricature di svariati artisti (Eddie Quicksilver era Freddie Mercury, Whacky Jacko emulava Michael Jackson e così via) accompagnate dalla frase “could you manage this rockstar?”, creando un sibillino hype mesi prima della pubblicazione del gioco. Il momento più importante giunse però fuori dal familiare mercato degli home computer, quando Codemasters decise di entrare nel fruttuoso mondo delle console con il Game Genie, un adattatore da posizionare tra NES e cartuccia per ottenere trucchi di ogni tipo, dalle vite infinite a veri e propri segreti, nascosti dai programmatori nel codice. L’unico problema è che la cosa non andava affatto giù a Nintendo, pronta a combattere e a portare in tribunale Galoob, ovvero il marchio che vendeva Game Genie in America e Canada. Non andò bene per la casa di Mario, capace di respingere la scomoda periferica solo inizialmente, per poi essere costretta a cessare le ostilità e ad assistere a una sua capillare diffusione, tanto che, agli inizi degli anni Novanta, buona parte di Codemasters era indaffarata a soddisfare le richieste del mercato, sfornando nel contempo versioni del Game Genie per molte altre console come il Game Boy e il Megadrive. Una macchina, quest’ultima, che si sarebbe rivelata assolutamente vitale per il futuro dell’azienda, come scopriremo nella prossima puntata della Time Machine Reloaded.

Articolo precedente
Generation Zero futuro speciale

Generation Zero: il futuro distopico svedese – Speciale

Articolo successivo

The Umbrella Academy - Prima Stagione - Recensione

Condividi con gli amici










Inviare

Password dimenticata