Chi dimentica è complice – Editoriale

La conservazione dei codici sorgente è spesso affidata unicamente a iniziative di privati o istituzioni che operano sul confine del copyright, quando non in sua aperta violazione

Eppure negli ultimi anni la nostalgia è stata grande protagonista del mondo dei videogiochi. Sono fioccate collection, ristampe, remaster, persino riedizioni mini di qualunque vecchia console fosse possibile riportare sul mercato, il tutto però senza alcun criterio conservativo e con un solo scopo: attingere dal portafoglio dei millennial sfruttando il legame affettivo verso prodotti con cui sono cresciuti. Sarei curioso di sapere quante di quelle mini console siano state effettivamente accese o quante siano finite tra le mani di giocatori con meno di 30 anni.

Chissà per quanto ancora si potranno vendere mini-console ad adulti che si sentono ancora bambini.

Capisco che mio nipote e il suo giro di compagni non siano indicativi, ma se fossi a capo di qualche grande publisher due domande su cosa vorranno giocare gli adolescenti tra 3, 5 o 10 anni me le farei, perché il rischio di avere tra le mani oggi IP milionarie destinate a valere molto poco in breve tempo è alto. La sola soluzione che vi viene in mente è quella di investire in cultura (sempre che si voglia trovare una soluzione, perché il mercato si regola da solo, no? E allora affari loro, non fosse che con la scomparsa di publisher si perdono le tracce dei giochi, alimentando il circolo vizioso). Se un adolescente appassionato di cinema guarda film vecchi di decine d’anni e un adolescente appassionato di videogiochi non conosce il primo GTA è perché qualcuno ha spiegato al primo il valore di Quarto potere, mentre al secondo non ha mai raccontato nessuno della portata rivoluzionaria di Rockstar.

Se le cose stanno così, è anche perché l’industria ha sempre trattato la stampa come un megafono promozionale

Quello a cui assistiamo oggi è il risultato di un’industria che ha sempre trattato la stampa solo come megafono promozionale e di una stampa che ha allevato un pubblico a colpi di clickbait e idiozie. Certo, oggi è tardi per iniziare a trattare diversamente il videogioco, ma è sempre meglio tardi che mai. Un punto di partenza potrebbe essere iniziare a considerare il passato come qualcosa da tramandare e da cui imparare, e non solo come un osso da spolpare.

The Strong Museum of Play in Rochester è uno degli enti che si occupa della conservazione dei videogiochi, con scarsi support dei publisher per altro.

Siamo fortunati perché una parte di chi ha costruito questa industria è ancora in vita e può raccontarci cosa è successo. Allo stesso modo i magazzini delle software house, con un po’ di fortuna, saranno pieni di studi, bozzetti e versioni preliminari di giochi che oggi consideriamo classici. Non è il mio lavoro trovare un modo per salvare i videogiochi, ma così su due piedi qualche idea si potrebbe anche azzardare, e visto il successo di Game Over su Netflix o di piccole case editrici specializzate in libri di qualità sulla storia del videogioco, direi che basterebbe farsi ispirare per cavare fuori qualche buona intuizione. Certo servirebbe la voglia, ad esempio, di competere con streamer e youtuber che giocano tutti gli stessi prodotti. In fondo non si tratterebbe nemmeno di filantropia, quanto piuttosto di una strategia economica mirata a preservare il valore delle proprie IP in ottica futura, invece di spolpare tutto lo spolpabile oggi sperando ci sia sempre lì fuori qualcuno disposto a comprare una mini console a 80€ per non affrontare la consapevolezza del tempo che passa.

Torna alla prima pagina…

Articolo precedente
Corsair MP400 Recensione

Corsair MP400 2TB – Recensione

Articolo successivo
acer

Next@Acer: ecco le novità presentate nel corso della conferenza

Condividi con gli amici










Inviare

Password dimenticata