File 003.2 – Video Games You Will Never Play
Dove trovarlo: Amazon.it
Stesso concetto, ma libro diverso, Video Games You Will Never Play è il risultato dello sforzo pluriennale del collettivo Unseen64, capitanato dall’italiano Luca Taborelli, aka monokoma aka Gekigēmu come è oggi conosciuto sui social. Introdotto da una prefazione dello stesso Frank Gasking (in fondo la gente che gira nell’ambiente è sempre la stessa), il volume si presenta decisamente più denso e amatoriale, ma quest’ultima in fondo è una caratteristica che si lascia apprezzare. Siamo dalle parti dell’autoproduzione attraverso i servizi di stampa di Amazon, l’impaginazione non è di sicuro paragonabile, ma ad onor del vero nemmeno la mole di contenuti: al suo interno sono condensati circa 200 videogiochi mai pubblicati insieme a un nutrito apparato redazionale e una ventina di interviste a sviluppatori e istituzioni.
La quantità di contenuti, anche in questo caso tutti in inglese, può risultare spiazzante: cosa ci fanno, ad esempio, Ico o Diablo nell’indice? La risposta è semplice: il volume include anche versioni mai completate di giochi che in realtà hanno visto la luce altrove, in altre forme. Nel caso del capolavoro di Fumito Ueda, ad esempio, la pagina e mezzo di approfondimento racconta la genesi del gioco sulla prima PlayStation, analizzando le differenze con la versione poi uscita su PS2 attraverso screen estratti dal video di presentazione che il team ICO aveva sottoposto a Sony per l’approvazione. Il Diablo in questione, invece, è una tech demo per Gameboy realizzata all’epoca da Blizzard e riemersa nel 2007, che dimostra i primordiali tentativi fatti per adattare il celebre GDR alla console portatile Nintendo, forse con l’obiettivo di ricavarne un titolo ibridato con la formula Pokemon.
CARATTERISTICA COMUNE ALLE CENTINAIA DI ARTICOLI RIPORTATI NELLA RACCOLTA È LA PARTENZA DALLE FONTI, TUTTE RIGOROSAMENTE CITATE IN CALCE
Tirando le somme, The Games That Weren’t e Video Games You Will Never Play sono due libri molto diversi, soprattutto se considerati come oggetto fisico: uno patinatissimo, rifinito, rinchiuso in una copertina rigida, l’altro un morbido brossurato, autoprodotto e scritto fitto fitto. Eppure entrambi rispondono alla stessa esigenza, che non è solo quella scavare nei misteri dei giochi che non hanno mai visto la luce, quanto piuttosto quella di raccontare l’industria del videogioco al di fuori del circuito quotidiano fatto di news e recensioni, per testimoniare l’esistenza di un passato la cui perdita, per citare l’introduzione di David Crane, sarebbe una vera e propria tragedia.
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