In principio era il Verbo, e il verbo era Hideo, il verbo era presso Hideo. Perché su Hideo (come su Fumito, su Goichi e come su un sacco di altri creativi) le lingue di fuoco dello Spirito Santo si sono posate grazie ad Another World, ma nonostante tutto a predicare tra le masse non è stato Éric Chahi. La capacità di raccontare è uscita dal Testo Sacro del libretto delle istruzioni grazie ai suoi apostoli, benedetti dal dono dell’unica lingua che non ha bisogno di altre lingue: quella dei videogiochi.
Il Videogioco è una forma d’espressione attiva. Si fa molto spesso questo distinguo rispetto alle altre Arti, che sono passive perché una volta che premi play il Cinema e la Musica vanno avanti anche nel vuoto, anche se non ci sei. Dopo che hai premuto start invece sono necessari un sacco di altri input per arrivare ai titoli di coda. Fa davvero tutta questa differenza? Un albero che cade dove nessuno può sentirlo farà anche rumore, ma è un rumore privo di significato. Non c’è nessuno a raccoglierne il messaggio, a testimoniare quello che è successo. Non ho mai capito che differenza c’è tra un film proiettato in una sala vuota e un videogioco senza nessuno a premere i tasti sul suo controller. Mi è sempre sembrato un distinguo arbitrario. Se c’è una differenza, semmai, è che i videogiochi per un sacco di tempo si sono affidati a elementi che non c’entravano con i videogiochi per far sentire la loro voce. La trama riportata nel libretto, perché su cartuccia la memoria costava e non c’era spazio da dedicare a quello che poi era solo un pretesto per far salvare la principessa Peach da Mario. L’arrivo delle cutscene non appena si è passati al più economico supporto ottico, alla ricerca di una legittimazione in stile Hollywood attraverso un paragone con Hollywood stessa. Eppure ad un certo punto è diventato naturale raccontare nei videogiochi usando il loro linguaggio. Sostituire i filmati con il gameplay, rivalutare il concetto di scriptato eliminandone l’accezione negativa. È stato un procedimento graduale, al punto che quasi non ci si è accorti di quanto sia cambiato il medium dal “Quarto Potere ma con il controller” che voleva essere The Last of Us a The Last of Us Parte II che riduce tutto quello che non è ludo a prestito linguistico.
UN ALTRO MONDO
In un mondo dove la keyword è “contenuto” l’atto più sovversivo che si possa fare è parlare per sottrazione. Robin Hood è entrato nell’immaginario collettivo rubando ai ricchi per dare ai poveri. Fumito Ueda va oltre, ruba al giocatore tutto quello che non gli serve lasciando su disco solo l’essenziale: lasciando Ico. Il vangelo apocrifo di Chahi che in Giappone diventa canone e grazie alla capillarità di PlayStation 2 (che non è Amiga) riesce a tornare in patria, addirittura a varcare le Colonne d’Ercole e uscire negli Stati Uniti con una delle cover peggiori mai prodotte dall’essere umano. Ma la cosa importante in Ico non è la sovversione, il fatto che manchino tantissimi degli elementi che Ueda ha rimosso come avrebbe fatto Michelangelo messo davanti ad un blocco di marmo. La cosa importante è il perché dietro la scelta. Ico è un puzzle-platform che ruota attorno a una sola meccanica: il rapporto tra i due protagonisti. È una co-dipendenza che viene raccontata non solo dal design del castello, ma dalla necessità di dover premere R1 per chiamare Yorda e doverlo tenere premuto quando la si vuole condurre per mano attraverso la mappa. Uno sforzo fisico nel mondo reale che si traduce in gesto in quello virtuale oltre lo schermo. Ico ha bisogno di Yorda e Yorda ha bisogno di Ico, e inevitabilmente chi sta giocando finisce per affezionarsi ai due, a vivere ogni attacco delle ombre mandate dalla regina a reclamare la ragazza come una minaccia quanto mai concreta. Il castello e la sua architettura passano in secondo piano perché l’urgenza è uscire a riveder le stelle, abbandonare quelle mura che sono state per troppo tempo una prigione da diecimila metri quadri.
Il superpotere dei videogiochi è l’empatia. In un contesto come Ico questa vive soprattutto attraverso il gameplay, visto che tutto il resto viene a mancare. Yorda parla una lingua incomprensibile durante tutto il primo playthrough, Ico non guadagna punti esperienza man mano che affronta le ombre. È l’essenziale reso finalmente visibile agli occhi, se sai dove guardare. Nello stesso anno di Ico esce anche l’attesissimo sequel di uno dei più grandi classici della prima PlayStation. Il gioco che ha cambiato i videogiochi, che per la prima volta ha urlato “guarda mamma, come il Cinema”. Nello stesso anno in cui Ueda consegna allo scaffale Ico, Kojima fa la stessa cosa con Metal Gear Solid 2. E se Fumito era Robin Hood, Hideo è molto più simile a Nerone che decide di bruciare la sua Roma.
METAL GEAR SOLID 2 HA BISOGNO DEL SUO PREDECESSORE, PERCHÉ IL SUO SCOPO È QUELLO DI DECOSTRUIRLO: IL DEJA-VU FA PARTE DEL PIANO DEI PATRIOT
IDEAS FROM THE DEEP
Eppure quell’idea rimane lì. Riesce anche a esprimersi a momenti alterni, in una boss fight lungo un fiume che ti chiede il conto per la morte che hai seminato o in quel corridoio a microonde che diventa sempre più faticoso da attraversare anche per te che il controller lo stai solo reggendo in mano. L’idea rimane lì, latente, un gene recessivo da passare avanti di generazione in generazione finché non è pronto a manifestare i suoi tratti. Succede troppo tardi. Anzi, in Konami non succede appieno se non fuori dal gioco, quando Metal Gear Solid V viene annunciato come Ground Zeroes e proprio non si capisce cosa possa essere questo fantomatico The Phantom Pain di Moby Dick Studios e Joakim Mogren. In-game è tutto ridotto di nuovo a singoli momenti. Più duraturi, più maturi nell’uso del linguaggio, ma comunque parentesi tra quello che c’era prima e quello che verrà dopo. Significano tutto, ma sono solo “Luci Guida, Anche nella Morte”, esattamente come il titolo della missione che parla meglio la lingua dei videogiochi in un’opera che ha come cardine l’importanza del linguaggio. Quaranta ore passate a costruirsi una reputazione come Big Boss. A selezionare il personale della nuova Mother Base prelevandolo dietro le linee nemiche. Tutto per arrivare al momento in cui sei costretto non solo a perdere tutto, ma a gettarlo via di tua mano. Premere il grilletto diventa più difficile di quanto possano mai simulare i trigger adattivi di DualSense.
È il dolore fantasma evocato dal titolo dell’opera. Ma è ancora legato alle necessità d’essere un capitolo cinque, anche se ci metti le nanomacchine o il loro equivalente batterico ci sono comunque delle esigenze editoriali. Sam Porter Bridges è più libero. Una libertà quasi soverchiante, in un mondo che si premura di sottolineare esattamente quanto costa ogni passo che viene fatto. Non è solo l’indicatore dell’usura degli stivali a schermo o l’intermezzo in cui Norman Reedus si strappa le unghie dai piedi. È la fatica di muoversi nelle United Cities of America. Il dover premere un sacco di tasti perché ogni passo richiede di ribilanciare l’equilibrio ed evitare che il carico si danneggi.
DEATH STRANDING GIOCA SUL FILO, ALTERNA SEQUENZA FILMATE A MOMENTI PIÙ PROPRIAMENTE DA VIDEOGIOCO
Kojima non ha mai sofferto la possibilità che la sua opera fosse interpretabile. Deve essere tutto chiaro, didascalico, anche ridondante. È tutto il contrario di Ueda, e per quanto Death Stranding parli di vuoto e di legami come il trittico di Fumito l’erede di quel modo di intendere il videogioco va cercato più a occidente. Nemmeno poi così distante da dove è iniziata questa storia, visto che solo seicento chilometri di lande separano l’Esonne di Chahi dalla Cambridge di Ninja Theory. Se si deve parlare di un videogioco che racconta sé stesso attraverso il gameplay è impossibile lasciare fuori dal ragionamento Hellblade: Senua’s Sacrifice. Le voci nella testa di Senua, all’inizio un fastidio in cuffia e poi sempre più zona di comfort in cui rifugiarsi capendo – vivendo – il disagio della donna. La claustrofobica ripetitività delle battaglie, un difetto in sé e per sé che però tradisce un significato più profondo. Lo stesso mondo di gioco capace di parlare un linguaggio tutto suo fatto di rune ambientali che si impara a riconoscere già prima che il gioco poi lo chieda per superare un enigma. Se la scorsa generazione è quella che ha mostrato di aver finalmente interiorizzato il suo linguaggio è perché una cosa come Hellblade è stata non solo possibile, ma sostenibile. Ok, Hellblade sarebbe andato in pareggio vendendo solo trecentomila copie, un numero tutt’altro che stellare che ne riflette il budget. Ma è andato oltre le aspettative della casa madre, raggiungendo l’obiettivo nella metà del tempo previsto e soprattutto guadagnandosi l’attenzione di Microsoft. E voglio credere anche gli sguardi di qualche studio in seno a Sony, che con Ninja Theory aveva un deal di esclusiva temporale per la versione console.
GLI ULTIMI SARANNO I PRIMI
Naughty Dog si era già scontrata col racconto per meccaniche di gioco. Una delle critiche più abusate dai detrattori di Uncharted è proprio sull’abuso di script per creare situazioni alla Indiana Jones. Un’illusione, non un vero e proprio mondo che reagisce al giocatore. Assolutamente vero, ma anche assolutamente ininfluente: vero o no, scriptato o meno, non cambia la sostanza di quei momenti. Sapere che la scena del treno all’inizio di Uncharted 2 è legata a trigger che si attivano quando il giocatore ci passa sopra (come la trappola di una tomba alla Indiana Jones) non la svuota di potenza. Guardando il botteghino però il loro lavoro più di successo è (ancora oggi tra l’altro) il primo The Last of Us, un gioco figlio della sua generazione che si racconta soprattutto attraverso filmati.
the last of us parte II ci fa capire quanto Naughty Dog si sia guardata attorno, adottando uno stile di racconto diverso
Il futuro non può che andare in questa direzione. Realtà Virtuale, feedback aptico, audio 3D. Tutte le feature con cui l’attuale generazione ha cercato di vendersi al grande pubblico nascono con l’obiettivo di immergere quanto più possibile il giocatore dentro il videogioco. La buona notizia è che anche gli sviluppatori hanno tutta l’intenzione di fare la stessa cosa, e qualcuno c’era pure riuscito senza nulla di tutto questo a disposizione. I videogiochi sono pronti a dare l’esame di maturità: non resta da capire se vale anche per i giocatori.