Il videogioco omeopatico: quando le software house ci fanno giocare troppo

“È difficile per tutti i videogiochi d’avventura puntare alle 50-60 ore di gameplay, perché questo sta diventando sempre più costoso. E alla fine potrebbe escludere creatori e storie interessanti dal mercato, se questa è la soglia che devono per forza raggiungere… È qualcosa che va rivalutato.”
Shawn Layden, 23 giugno 2020 @Gamesindustry

Shawn Layden aveva ragione. Aveva ragione nel sostenere che il modello dei Tripla-A non fosse più sostenibile, visti i costi di sviluppo raddoppiati ad ogni generazione a fronte di un unico aumento del prezzo di copertina con l’inizio della nona generazione. Aveva ragione a parlare di un videogioco troppo bulimico, troppo ossessionato dai contenuti e dalla longevità a qualunque costo, senza chiedersi se questo fosse il modo migliore per raccontare le nostre storie. Shawn Layden aveva ragione, e Ubisoft lo scorso sabato ce l’ha confermato decidendo di puntare per il 2023 su un Assassin’s Creed più compatto. Solo che c’è una fregatura: Assassin’s Creed Mirage proprio per questo verrà venduto ad un prezzo budget, ammettendo implicitamente che un’esperienza più lineare vale meno di un RPG Open World a la The Witcher 3, come Valhalla o il prossimo Assassin’s Creed Red. Prezzo uguale contenuti… insomma. Solo che adesso chi lo spiega ai giocatori che è un errore?

TEMPI MODERNI

Siamo tutti Charlie, ma non ci siamo accorti che di cognome facciamo Chaplin. Come il suo personaggio in tempi moderni abbiamo subito in prima persona gli effetti dell’industrializzazione, osservando come di anno in anno il marketing della nostra catena di montaggio puntasse sempre di più sulla quantità. Mappe sempre più grandi. Sempre più missioni secondarie, siano classiche fetch quest o esercizi di scrittura più leggeri rispetto alla campagna principale. In sostanza sempre più ore di gioco – sempre più ore in gioco. Di pari passo sono proporzionalmente cresciuti i costi di sviluppo. The Last of Us è un’ottima cartina tornasole del fenomeno: il primo capitolo è costato a Naughty Dog circa tre anni e mezzo di sviluppo, portando sugli scaffali un’esperienza completabile in una quindicina di ore. The Last of Us Parte II di anni di sviluppo ne ha richiesti sei, quasi il doppio, e per mostrare i titoli di coda richiede al giocatore un tributo di 25-30 ore – di nuovo, il doppio. E questo nonostante da più parti si sia celebrata PlayStation 4 come una macchina estremamente più semplice da approcciare a livello di game development rispetto a PS3 e al suo famigerato Cell.

videogioco omeopatico

Non è un caso che su PS3 uscissero giochi tipo Tokyo Jungle mentre su PS4 il massimo della sperimentazione è stato il porting di Tearaway…

A fronte di questo raddoppio di tempi il prezzo di copertina delle due opere è rimasto lo stesso. Nell’intervista a Gameindustry di due anni fa Layden definiva il modello dei Tripla-A non sostenibile per questo: i costi raddoppiano, il prezzo rimane sostanzialmente immutato e quindi per raggiungere la stessa profittabilità è necessario vendere più copie. Ma c’è un limite al numero di copie che si possono vendere e a quello di giocatori che si possono raggiungere. Soprattutto quando appunto la lingua parlata dal marketing magnifica le opere dal punto di vista quantitativo.

IL MIRAGGIO DI MIRAGE

È a questo punto che entra in scena Ubisoft. Assassin’s Creed Origins era completabile in trenta ore, Valhalla in sessanta. Non è un caso che l’anno successivo all’uscita di Origins la casa transalpina sia riuscita ad uscire con Odyssey affidandone la gestazione a Ubisoft Quebec, mentre Valhalla (di nuovo in mano a Montreal, lo stesso team di Origins) è separato dal capitolo in Grecia da altri due anni di lavoro. Negli anni di pausa si è provato – riuscendoci – a rendere Odyssey e Valhalla due piattaforme rilasciando espansioni a pagamento, ma è chiaro che sia una strategia meno remunerativa dell’avere a disposizione un titolo nuovo all’anno. Ed è altrettanto chiaro che se il volume di lavoro aumenta, anche la strategia di ruotare i team di sviluppo al lavoro sulla serie – sulla falsariga di quanto fa Activision da tempi non sospetti giostrando i Call of Duty commerciali tra Infinity Ward, Treyarch e Sledgehammer Games – non sia più sufficiente. In quella pluri-citata intervista Layden propiziava il ritorno a dei Tripla-A più piccoli, ammettendo che in questo modo avrebbe lui stesso portato a termine più esperienze. Difficile dargli torto, specie andando a vedere come le percentuali di completamento dei tre Assassin’s Creed du role siano calate all’aumentare della loro longevità.

videogioco omeopatico

Il paradosso è che l’industria fa giochi sempre più grandi e sempre meno persone arrivano in fondo. Che rumore fa un NPC che viene ammazzato se nessuno lo sente?

Mirage dovrebbe essere una risposta al problema. Un capitolo più dritto, pensato per durare 20-30 ore e sviluppato cercando di contenere i costi. Un ritorno alle atmosfere e alle caratteristiche dei primi capitoli della serie, mettendo per un attimo da parte la deriva RPG della trilogia di Layla. E un apripista a nuove esperienze diverse per la serie, dal punto di vista di gameplay, come il già annunciato – e fumoso – Hexe, di cui sappiamo solamente essere un altro capitolo che rifugge la formula di Odyssey e Valhalla. E per tanti versi è anche una buona risposta al problema: alla fine il ragionamento che c’è dietro non è tanto diverso da quello fatto a suo tempo da Ninja Theory con Hellblade, definito un “Indie Tripla-A” perché voleva mantenere i costi dei primi presentando su disco i valori produttivi dei secondi, tagliando proprio sui contenuti per raggiungere lo scopo. Mirage però va inserito nel contesto dell’offerta di mercato attuale, che al momento è spaccata in titoli ad alto budget venduti a prezzo pieno ed esperienze più piccole prezzate 20 o 30 euro. Da una parte il grosso blockbuster, dall’altra i Neon White, gli Stray e i Cult of the Lamb. Fasce di prezzo diverse proporzionate a quella che è l’offerta. E sembrerebbe essere giusto così, in ossequio alla legge della domanda e dell’offerta. Ma se il metro – quantomeno quello dominante – diventa la longevità, come potrebbero cambiare i videogiochi?

IL VIDEOGIOCO OMEOPATICO

Assecondando questo principio all’uscita di Valhalla, Origins perde automaticamente la metà del suo valore. Se con 70€ compro 60 ore di gioco, 30 mi aspetto di comprarle a 35. A prescindere dalla qualità di queste, di quante abbiano effettivamente qualcosa da dire. Peggio ancora: all’uscita di ogni videogioco monstre tutta l’industria sarebbe costretta a giocare al rialzo per giustificare il prezzo di lancio, perché dopo un ipotetico Red Dead Redemption 3 che unisce la capacità di essere lo stato dell’arte di Rockstar Games a 100 ore di campagna, l’obiettivo diventa questo. A costo di dilatare quello che c’è da dire o riempire la mappa di aree prive di significato dal punto di vista del design o del messaggio. Intanto in parallelo i costi salgono assieme ai tempi di sviluppo, e diventa sempre più insostenibile il flop di mercato. Già adesso Rockstar va praticamente all-in ad ogni major release, e se il prossimo Grand Theft Auto non fosse un successo rischierebbe la chiusura. Realtà meno munifiche possono rischiare ancora meno. Il che si traduce in meno rischi presi, meno esperimenti, magari anche nella tentazione di farsi acquisire dalla Tencent o dalla Microsoft della situazione.

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Se The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom dovesse per forza durare il doppio di Breath of the Wild sarebbe tra l’altro un problema a livello di distribuzione retail, visto che lo spazio su cartuccia costa più di quello su Blu-Ray

L’alternativa è ridurre il budget. Ma non tutte le storie possono permettersi di essere raccontate con un business model che prevede una messa in vendita a 50€: The Last of Us Parte II paragonato agli RPG Open World discussi fino ad ora dura poco, ma è costato comunque una cifra attorno ai cento milioni di dollari (più il marketing). Non sarebbe lo stesso gioco senza quelle sequenze che raccontano in-game proprio grazie alla qualità delle animazioni, alle routine dell’IA dei nemici, alla simulazione digitale di rapporti e interazioni tra di loro. Come si fa a mostrare il costo della vendetta senza programmare una IA canina che appena si accorge della morte del padrone guaisce disperata cercando una risonanza col nostro senso di colpa? Hotline Miami ha fatto qualcosa di simile nove anni fa in pixel art, ma per andare oltre è necessario (o almeno utile) sfruttare tutta la potenza di calcolo di un hardware.

Ridurre un videogioco alla sua durata non è diverso che ridurlo alla grafica. O al gameplay, o a qualunque altro elemento preso in singolo. I videogiochi sono un’orchestra, e le orchestre si misurano in decibel, non in ore giocate. L’unico metro giusto, se proprio vogliamo parlare di ore, è quanto tempo ogni volta arrivato ai titoli di coda ti fermi a pensare all’esperienza che hai appena fatto, alla vita che hai appena vissuto. E ci sono giochi che non mi hanno ancora lasciato, come fai a dare un prezzo a qualcosa di così inestimabile?

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