Ovvero, quando i videogiochi prendono posizione (anche senza prenderla)… Le opere videoludiche sono un atto politico fin dalla loro genesi , è inevitabile che sia così se li vogliamo considerare Arte. Allo stesso tempo sembra che essere ‘politici’ sia un difetto, un peccato originale da nascondere nelle interviste e per massimizzare le vendite a dispetto di quello che poi succede dietro lo schermo.

Ricordate: niente politica.
“Premi L2 per tranquillizzare la situazione”. L’ultimo caso di politica nei videogiochi – o quantomeno nel videogioco mainstream – è questo popup che compare a schermo durante una missione di Call of Duty: Modern Warfare II. Premendo L2 si punta il fucile contro i civili presenti sulla scena, che reagiscono tornando nelle loro case intimiditi dal gesto. La reazione è normalissima: non fosse presente il messaggio davanti ad un comportamento del genere si parlerebbe di un sano tocco di realismo (per quanto scriptato) aggiunto alla scena, una chicca che rende il tutto più verosimile, più vicino a cosa succederebbe nella realtà. Ma quella scritta c’è. E di conseguenza ignorarla vorrebbe dire ignorare parte del messaggio che c’è dietro.
MAKE AMERICA GREAT AGAIN
Quel messaggio va inserito all’interno di cos’è Call of Duty e più in generale di quali sono i rapporti di Activision-Blizzard con la politica. Prima però è opportuno provare a dare una lettura del popup, chiedersi cosa volesse raccontarci Infinity Ward.
La mia interpretazione è una delle tante possibili, è assolutamente legittimo non essere d’accordo o bollarla come una sovra-analisi
La mia interpretazione è una delle tante possibili, è assolutamente legittimo non essere d’accordo o bollarla come una
sovra-analisi di quello che alla fin fine è un normalissimo messaggio come potrebbe esserlo “premi A per saltare” in un capitolo qualunque platform.
Modern Warfare II però non è Super Mario World: è un videogioco dove si interpreta un soldato dell’esercito americano, e in particolare questa scena definisce l’atto da parte di un militare di puntare un fucile contro un civile come “tranquillizzare la situazione” (in originale “de-escalate civilians”, una formula estremamente più esplicita). La dinamica di potere tra le due parti è chiara. Ai fini del racconto c’è un lato giusto e un lato sbagliato del fucile, e il giocatore è inequivocabilmente dal lato giusto. Siamo noi ad esercitare il potere e il nostro gesto tranquillizza la situazione, evita un’escalation. Faccio davvero fatica a non vedere in tutto questo una narrazione eroica che va ad esaltare il ruolo dell’esercito. Tutto normale, direbbe qualcuno. Dopotutto è un gioco sulla guerra, è sacrosanto che ci sia una certa fascinazione per la divisa. Può andarmi bene, ma implicitamente questo
ammette che Call of Duty sta facendo politica, perché sta scegliendo una parte e ne sta facendo una narrazione pseudo-propagandistica – non che sia una novità all’interno di una serie che ha strumentalizzato
anche l’Olocausto per lo stesso fine.
Infinity Ward però non è d’accordo.

Secondo Jacob Minkoff, direttore del gameplay della campagna del Modern Warfare 2019, per essere politico un videogioco deve parlare delle amministrazioni, dei governi e degli eventi del mondo odierno. Una definizione che esclude dalla politica quindi sia giochi ispirati ad eventi storici che lo stesso Modern Warfare, che dalla nostra realtà è “solo” liberamente tratto e anzi si prende anche qualche licenza di modificare avvenimenti storici per renderli più funzionali alla narrazione proposta.
Il Modern Warfare 2019 infatti opera un retcon in piena regola sugli eventi dell’Autostrada della Morte
Il Modern Warfare 2019 infatti opera un retcon in piena regola sugli eventi dell’Autostrada della Morte, arteria che collega Kuwait City all’Iraq distrutta dalle forze americane nella notte tra il 26 e il 27 febbraio 1991. Nel gioco il bombardamento viene attribuito alle forze sovietiche, e tanto basterebbe, stando alle parole di Minkoff, a non concedere lo status di opera politica a Modern Warfare. Ci si potrebbe invece chiedere perché scegliere di cambiare proprio questo dettaglio e proprio ai danni dell’esercito russo, un atto che francamente mi sembra esplicitamente una scelta politica. Ma andando ancora più a fondo
ci si potrebbe chiedere perché lo status di videogioco politico appaia così scomodo, visto che proprio Minkoff nella stessa intervista esordiva dicendo che è una definizione che “non ha assolutamente senso” e il Narrative Director Taylor Kurosaki rincara poi la dose dicendo che sì,
magari Call of Duty tocca argomenti come occupazione, indipendenza e libertà, però non li nomina mai esplicitamente. La risposta alla domanda era arrivata qualche anno da per bocca del COO di un’altra casa di sviluppo, Massive Entertainment (The Division):
è un male per gli affari, o almeno è questa la percezione che dietro le linee del game development hanno gli addetti ai lavori.
ORANGE COUNTY
Allarghiamo il quadro. Concentriamoci in particolare sull’uomo dietro non solo Call of Duty, ma Activision-Blizzard tutta, il CEO Bobby Kotick. L’indirizzo politico di Kotick non è un mistero. Non può esserlo, perché negli Stati Uniti le donazioni ricevute dai partiti sono documentate e consultabili pubblicamente.
L’indirizzo politico di Kotick non è un mistero, non può esserlo, negli Stati Uniti le donazioni ricevute dai partiti sono documentate
Kotick nello specifico è
un habituè nel supportare il Partito Repubblicano. Nulla di male in questo chiaramente, da privato cittadino è libero di disporre dei bonus del suo stipendio
ottenuti licenziando centinaia di dipendenti come meglio crede. Non c’è nulla di anomalo quindi nel registrare il suo supporto nella corsa al senato per il 27esimo distretto della California al candidato del “Grand Old Party” Mike Garcia. Chiaro, a questo punto è opportuno ricordare che lo scandalo sulle molestie sessuali in Activision-Blizzard è partito proprio da una causa intentata contro la società dal California Department of Fair Employment. Mike Garcia è peraltro una figura controversa
per quanto riguarda i diritti delle donne, oltre che
un veterano di guerra. Perché quest’ultimo dettaglio è rilevante ai fini del discorso? Lo scorso 8 novembre Activision-Blizzard, interrogata sulla questione da Kotaku, ha rilasciato questa dichiarazione:
“I finanziamernti del signor Kotick si concentrano su cause e candidati principalmente in supporto dei veterani e del loro reinserimento nel mondo del lavoro. Mike Garcia è un pilota decorato della Marina e un forte sostenitore dei veterani interessato ai loro problemi. Il signor Kotick e la Call of Duty Foundation – di cui è co-presidente – inseguono l’obiettivo di assicurare che tutti i veterani possano avere opportunità di lavoro che riflettano i sacrifici sostenuti durante il loro servizio. Il signor Kotick ha, nei passati cinque anni, stanziato sostanzialmente la stessa somma per Democratici e Repubblicani.”

Curioso come una serie assolutamente non politica nelle parole dei suoi sviluppatori abbia dato il nome ad una fondazione che si occupa – a questo punto attivamente, viste le cifre stanziate – di reduci di guerra e del loro reinserimento. Curioso anche come l’associazione ci venga presentata come bipartisan per giustificare il sostegno da parte del CEO di Activision Blizzard ad un candidato di una specifica compagine politica.
Diventa difficile non leggere Il tentativo di presentare un’immagine riveduta e corretta dell’esercito USA
Appare chiaro – non che avessi dubbi in proposito – che Call of Duty non è soltanto una serie di videogiochi politica, ma è anche
politicizzata. Diventa davvero difficile non rileggere gli episodi citati in chiave repubblicana, non leggere una certa
esaltazione di alcuni ideali o un tentativo di presentare un’immagine riveduta e corretta dell’esercito statunitense. Bobby Kotick è una persona singola e di certo non può essere eletto a rappresentante di tutta
Infinity Ward o degli altri studi che a rotazione lavorano a Call of Duty, ma ignorare la cornice in cui la serie viene anno dopo anno finanziata vuol dire negarsi per principio analisi e letture di questo tipo di un medium che insistiamo a voler considerare arte senza però mai crederci davvero. Ma dopotutto scegliere di non voler vedere da quale parte stanno le opere limitandosi ai loro aspetti più direttamente ludici
è a sua volta una scelta politica.