Fuga dal mainstream, intervista a Santa Ragione

La carta ha esigenze diverse dal web: se avete comprato in edicola TGM #395 (e se non l’avete ancora fatto, cosa aspettate?!), avrete già letto una versione condensata della mia intervista con Pietro Righi Riva di Santa Ragione, nello stesso numero in cui appare la recensione di Saturnalia. I temi e le posizioni di Pietro sono rimasti intatti, ma le necessità di impaginazione hanno imposto tagli, riducendo di parecchi caratteri quella che in presa diretta è stata una chiacchierata lunga, piacevole, illuminante e priva di quei freni inibitori che tanti altri sviluppatori spesso si autoimpongono per evitare la controversia. Insomma, la trascrizione completa era troppo interessante per rimanere semplicemente custodita sul mio hard disk: per scelta stilistica ho deciso di rimaneggiarla il meno possibile, lasciando intatte le formule del parlato per trasmettere le sensazioni dell’atmosfera in cui si è svolta la chiacchierata. Ma a questo punto ho parlato (ok, scritto) fin troppo: prendete e leggetene tutti.

saturnalia

TGM: Ciao Pietro, la prima domanda è quella di presentazione, per cui ti lascio la parola!

PIETRO: Beh cosa ti posso dire, noi siamo uno studio di Milano partito nel 2010 da un gruppo di amici colleghi di università, nato perché stavamo facendo un gioco da tavolo, si chiama Fuga dagli alieni nello spazio profondo: l’abbiamo fatto un po’ nel tempo libero, però lo abbiamo curato per bene fino in fondo perché, appunto, venivamo tutti dagli studi di design, per cui abbiamo confezionato un prodotto completo. Poi quando abbiamo trovato un editore che voleva pubblicarlo abbiamo dovuto costituire una società per poter firmare i contratti con gli autori, col distributore, etc. e quindi poi da lì, insomma, questa cosa che è nata così per gioco è diventata una professione vera. Piano piano negli anni intanto ci siamo spostati verso il videogioco e poi, anche nel contesto del videogioco, ci siamo orientati verso prodotti sempre più complessi e sempre più ambiziosi, incontrando e collaborando con artisti e autori che disponevano di competenze tecniche che noi all’inizio non avevamo. Siamo diventati sviluppatori piano piano partendo comunque da una base di persone che non vengono da un ambiente tecnico-informatico di computer science.

TGM: La cosa che ho sempre trovato curiosa del vostro percorso è la capacità di saltare un po’ di qua un po’ di là da un genere all’altro, da una tematica all’altra, da uno stile all’altro: è un’esigenza o è un qualcosa che avevate deciso dall’inizio?

P: Allora, secondo me alla base di tutta la nostra produzione ci sono alcuni punti in comune, come tipo di approccio al design, alla narrazione, alla politica, al concetto di mistero, di esplorazione, ma non sono molto evidenti tra i vari giochi.intervista pietro righiPerò come dici tu a prima vista provando questi giochi sembrano tutti molto diversi tra loro. Il motivo secondo me è che noi non siamo esperti di un genere o di un tipo di gameplay per cui non possiamo competere a livello internazionale con, chessò, il miglior metroidvania al mondo, o il “miglior quello che vuoi”. Il nostro punto di forza è, penso, quello di trovare appunto nuovi generi oppure affrontare un genere e reinventarlo introducendo nuove meccaniche e penso che questo ci abbia ritagliato una fetta di pubblico che si aspetta questo da Santa Ragione. Quindi la strada che abbiamo individuato è quella di approfondire non verticalmente ma orizzontalmente, provare ogni volta una cosa nuova. Devi darci la sfida di un nuovo genere o di un nuovo tema, farci fare qualcosa di nuovo sia come interazione sia visivamente perché anche dal punto di vista della diversità artistica noi cerchiamo sempre di fare dei giochi che siano profondamente riconoscibili e che provino delle estetiche originali.

TGM: Ed è uno stimolo o una frustrazione?

P: È molto liberatorio, ovviamente, dire: questa è la cosa che abbiamo fatto, è finita, adesso se ne fa un’altra. Nel caso di Saturnalia è ancora più esasperato perché stiamo lavorando a questo gioco da 5 anni, quindi l’idea di metterci a fare qualcos’altro è esaltante perché dopo 5 anni che sei sulla stessa roba ovviamente non ne puoi più. Però in generale è sempre abbastanza traumatico fare tutto il percorso dal concepimento allo sviluppo, fino alla release del gioco, quindi c’è questo aspetto di forte liberazione che è anche dovuto a una crescita personale.Io e il team rispetto a quando abbiamo iniziato il progetto cinque anni fa siamo persone diverse oggi, con ambizioni, desideri, interessi diversi. Poter iniziare un progetto nuovo ci dà la possibilità invece di tornare a noi stessi di oggi e parlare delle cose che ci interessano in questo momento. D’altra parte però ovviamente vuol dire anche mettersi da soli in difficoltà notevoli. È più complicato ad esempio trovare finanziamenti perché non puoi mai puntare al passato e dire: “Guarda, ho fatto questo, lo rifaccio meglio” (che tra parentesi è uno dei grandi modelli di business dell’industria!). Se noi avessimo voluto, avremmo potuto fare il seguito di Fotonica e probabilmente da un punto di vista dello stress e del cash flow dello studio sarebbe stato più sensato. Però non ci va, preferiamo questo diverso approccio, anche perché è molto più stimolante dovere affrontare ogni volta dei problemi complessi che danno una grande libertà di sperimentazione. La sensazione che hai poi è quella di aver contribuito in maniera significativa al mezzo, di aver creato dei nuovi linguaggi che poi possono prendere piede. Una delle cose che a me emoziona di più è quando vedo nei prodotti dei colleghi un’ispirazione diretta (o indiretta) a cose che abbiamo pensato noi. Per dirti, recentemente negli ultimi tre anni sono usciti 5 o 6 videogiochi road trip: quando abbiamo fatto Wheels of Aurelia c’eravamo solo noi e oggi mi viene da dire:  “Cavolo, allora qualcosa l’abbiamo capito, no?!”. Magari abbiamo semplicemente colto prima una direzione che c’era già, però è gratificante.

TGM: Ok, e quindi cosa è successo di traumatico 5 anni fa per portarvi a dire: “Facciamo un gioco horror”?

P: Sai, l’horror si presta molto bene al racconto umano e al racconto politico/sociale, nel senso che tutto l’horror – non parlo soltanto di videogiochi ma anche di cinema – di solito utilizza il mostro o la componente orrorifica come strumento per parlare di qualcos’altro che riguarda i personaggi e la loro società. Essendo noi uno studio che cerca di raccontare – senza esagerare – la condizione umana, il mezzo dell’horror è un linguaggio codificato che ti permette di fare questa cosa e in più ha anche l’ottimo vantaggio di essere un intervista pietro righigenere commerciale. Volendo fare un prodotto più grande e più ambizioso chiaramente il coefficiente di rischio nell’inventare un genere completamente nuovo è esponenziale. Quindi se con Wheels of Aurelia potevamo permetterci di dire: “Ci inventiamo il gioco di guida arcade, isometrico e narrativo!”, per questo gioco abbiamo preferito utilizzare invece un framing che fosse già più consolidato, di modo da poterci permettere comunque un certo grado di sperimentazione, ma sobbarcandoci un rischio minore in proporzione al costo del progetto. Vendere un horror in terza persona è più facile, quindi queste due direzioni ci hanno un po’ portato a individuare il genere, però in realtà c’erano anche delle idee precedenti alla base. Per esempio, il concetto di monster maze, l’idea di utilizzare la luce come valuta spendibile per imparare un labirinto procedurale è venuta prima di tutti questi ragionamenti, ed è una cosa a cui io pensavo già da mesi o d’anni. Mi sarebbe piaciuto creare una cosa in cui tu questa meccanica un po’ push your luck, in cui vedere quanto riesco ad andare avanti senza illuminare, cercando di ricordarmi un posto. E questa è un’idea che si presta già di suo al horror! Mentre tutto il discorso sulla Sardegna, le storie dei personaggi, il conflitto tra questi personaggi, il villaggio dove si svolge, erano ragionamenti che avevamo fatto comunque a lato senza sapere il tipo di gameplay e le due idee si sono un po’ unite.

TGM: Apro una parentesi. Credo che, grosso modo, dovremmo avere la stessa età, quindi secondo me ti ricordi di Vietcong.

P: Uhm, un gioco sia PS per PC con intermezzi simili narrativi illustrati?  

TGM: Allora, io me lo ricordo perché c’era un una parte dello scenario dove dovevi muoverti al buio, quindi una sorta di labirinto forse erano trincee.

P: Ah, ok, ricordo. No, non l’ho giocato, era pc only.

TGM: Esatto. Bene, ho un amico che ha fatto tutta la sezione del labirinto al buio scoprendo alla fine che F era il tasto della torcia e lui invece l’aveva inteso come una prova di abilità di orientamento al buio. In realtà il gioco prevedeva semplicemente l’utilizzo della torcia, ma lui l’ha scoperto troppo tardi.

P: [ride] Per lui sarà stata un’esperienza molto significativa!

TGM: Direi abbastanza mistica! Scusa torno in topic. Citavi la Sardegna: il folklore sardo è finito nel gioco seguendo un’altra strada che si è unita a quella dell’horror, oppure i due temi nascono per stare insieme da subito?

P: La storia di Saturnalia è quella di un po’ di idee che si sono incontrate a metà strada diciamo, e quando ci sono incontrate queste idee abbiamo avuto bisogno di dargli un luogo e anche un tempo, perché per come lavoriamo noi ci piace ambientare i nostri giochi nella realtà.

L’HORROR SI PRESTA MOLTO BENE AL RACCONTO UMANO E AL RACCONTO POLITICO/SOCIALE, DI SOLITO UTILIZZA IL MOSTRO COME STRUMENTO PER PARLARE DI QUALCOS’ALTRO

È un metodo che ti dà degli strumenti per parlare del reale e del contemporaneo, ma anche per anche arricchire di veridicità e di realismo il tuo racconto. Non nel senso del realismo fotografico, ma nel senso di creare dei luoghi che sembrino vissuti, che sembrino vivi, che sembrino credibili. La nostra esigenza era trovare un luogo con una grande tradizione storica, cioè un luogo che permettesse il racconto di una storia più che infra generazionale, cioè stratificata nel tempo a partire da migliaia di anni fa; che fosse in una comunità isolata e protetta e separata dal mondo, con una forte identità; capisci che quando cominci a ragionare in questi termini finisci lì, in Sardegna. intervista pietro righiIn quale altro luogo puoi avere la zona archeologica nuragica vicino a un castello medievale vicino a delle rovine romane?! Questi sono elementi che sono fondamentali per la storia e la struttura del gioco, ma soprattutto per raccontare il mistero che ne sta al centro.

TGM: L’altra ispirazione che mi sembra di aver colto dal materiale promozionale (e che mi ha incuriosito tantissimo!) è il genere del giallo all’italiana. Che cosa succede in questi casi? Eravate in un periodo in cui guardavate quel tipo di film e quindi quell’atmosfera finisce dentro il gioco?

P: In realtà è un po’ il contrario, nel senso che e guardandoli si stratificano delle sensazioni e ogni volta che ne vedi uno pensi cavolo sarebbe figo fare un gioco ambientato in queste location con queste atmosfere e poi è capitata l’occasione. Per cui fin da quando abbiamo cominciato a parlare di horror nella mia mente il gioco aveva quell’estetica, aveva quel tipo di illuminazione, aveva quel senso espressionista di un un’immagine che non è realistica, ma che in modo teatrale comunica attraverso i colori, le luci e le vicende dei personaggi. Quindi dovendo creare un linguaggio visivo siamo andati a finire lì e nell’altra grande tradizione dell’horror italiano che è quella di Dylan Dog, ovvero quella del disegno fatto a mano, dell’animazione e del retino.

TGM: C’è qualche pellicola particolare o qualche numero specifico di Dylan Dog che è entrato più direttamente in Saturnalia?

P: In qualche modo di sicuro. Direttamente, consciamente, non te ne so dire uno però io so che nella mia mente ha giocato un ruolo di suggestione un Dylan Dog Speciale, si chiama… boh quello dove sono nel villaggio circolare con quella specie di Joker… “Sogni”! Ok, non so se l’hai letto, ma racconta di un paesino della campagna inglese.

intervista pietro righi

TGM: Sì, mentre ci pensavi l’ho cercato e ho beccato la copertina, ricordo perfettamente, mi ricordo anche la storiella di Groucho in allegato!

P: Se ti ricordi c’è questa storia del villaggio medievale labirintico con più personaggi che si perdono e si incontrano: evidentemente ce l’avevo in testa mentre pensavo a Saturnalia; poi non sono nemmeno andato a rileggerlo per cui sono memorie di 25 anni fa, però ovviamente si sono stratificate; dovrei provare a rileggerlo e vedere.

TGM: Ok, sposto un attimo il focus delle domande. Su PC uscite in esclusiva su Epic Store: come mai? È una di quelle decisioni che rischia di farti nemica una fetta di giocatori, perché non so spiegarmi i motivi, ma esistono talebani degli store.

P: È una cosa veramente fuori dal mondo, io capisco assolutamente le esigenze di ciascuno, il potere di consumare (consumare una è una parola bellissima), però di fatto questo è intrattenimento, prodotto nel modo più conveniente e accessibile possibile. L’interesse degli sviluppatori sicuramente è sempre di avere il proprio gioco su più piattaforme possibile, a patto di non compromettere l’esperienza, perché l’unica cosa che ci interessa è che questo lavoro di 5 anni arrivi a qualcuno. Dopodiché ci sono delle realtà molto chiare di fattibilità e di produzione che richiedono investimenti: Saturnalia è un gioco costoso fatto in 5 anni, circa 10-20 volte più grande di Wheels of Aurelia. E banalmente se Epic non ci avesse invitato a essere esclusivi su PC sulla loro piattaforma noi non avremmo avuto le risorse economiche per fare il gioco, quindi la scelta non è stata “Cosa ci conviene di più fare?”, la scelta è stata “Lo facciamo o non lo facciamo?”. Bene, io sono grato comunque ad Epic perché non glielo dice nessuno a loro di prendersi questi rischi: noi non siamo From Software, con la killer application assicurata. Stiamo pur sempre parlando di un gioco indipendente, fatto uno studio italiano noto per il suo approccio sperimentale e quelli di Epic hanno visto il gioco e tra tutti quelli che come loro lo hanno visionato hanno detto: “Questo è interessante abbastanza da scommetterci dei soldi”. Chiaramente qualcosa in cambio lo devi volere, no? [Ride] Quindi io sono molto contento di aver avuto questa possibilità, cioè in sostanza l’opportunità di fare il gioco. Se devo mettere questa cosa sul piatto con la necessità di installare un altro software per lanciare il gioco, non c’è storia.  

TGM: Per quanto mi riguarda trovo molto interessante scoprire cosa c’è dietro: magari serve anche a convincere qualcuno che ragiona per categorie stagne che c’è sempre una realtà un po’ più stratificata e complessa dietro certe decisioni.

P: Sì, certo, sarebbe un po’ come arrabbiarsi per il fatto che Stranger Things è solo su Netflix! Quando costruisci un portfolio investi di soldi. È difficile da esterni aver in mente le complessità produttive e le necessità che stanno dietro la realizzazione di un prodotto di intrattenimento. Ed è bello anche che voi facciate un po’ da tramite per sensibilizzare su un tema che a noi è molto caro. Noi siamo sempre stati molto aperti su questo argomento. Dovrebbe essere chiaro a tutti che il lo sviluppatore non ha mai interesse a limitare l’accesso al proprio lavoro a un’audience ristretta. C’è poca gente nello spazio indie che fa questo lavoro per farci i soldi; la maggior parte di noi non li fa e fallisce. C’è una fascia media che sopravvive e poi ci sono le eccezioni, ovviamente. Ma la stragrande maggioranza arranca, non è che si trova a dire: “Voglio un milione di euro in più o in meno?”. Mentre a volte dalle critiche sembra un po’ che la situazione sia questa. L’accusa è quella di sacrificare il cliente per avidità, ma non è così: almeno non è così nel nostro caso e nella gran parte dei casi che io conosco, casi di colleghi che si trovano a firmare con un publisher o un distributore, non necessariamente con Epic, ma anche con Playstation, Nintendo o Xbox, e sono sempre scelte che si fanno per dare una possibilità al prodotto di esistere, di raggiungere un suo pubblico.Avere dietro di te una piattaforma che ti dice anche solo: “Guarda, se lo fai in esclusiva con noi ti garantiamo questo tipo di posizionamento, questo tipo di marketing o ti presentiamo come uno dei 10 giorni all’occhiello” fa tutta la differenza del mondo. Non è che stai rinunciando a un extra se decidi di dire no a questa proposta; al contrario c’è il rischio molto forte che il tuo gioco scompaia nel nulla, perché da indie tu non puoi permetterti i budget di marketing per essere sicuro che le persone sappiano che esiste il tuo gioco. Quindi spesso la scelta è tra chiudere e licenziare tutte le persone che lavorano per te, oppure seguire questa strada. Le dinamiche di forza sono molto sproporzionate: non voglio in nessun modo dipingere Nintendo, Microsoft, eccetera come degli approfittatori, perché anche dal lato loro c’è una c’è un’assunzione di rischio.

Pensa a Gamepass, un sistema in cui non è completamente dello studio la responsabilità di arrivare ad ogni singolo utente

Però questa dinamica funziona in questo modo e permette in realtà la realizzazione di progetti che altrimenti non potrebbe resistere. Pensa anche soltanto a Gamepass: quanti giochi hanno permesso agli Studios di continuare il proprio successivo progetto perché sono stati inseriti all’interno di un sistema in cui non è completamente loro la responsabilità di arrivare ad ogni singolo utente. Perché su Gamepass, che paghi 15 € al mese, provare un gioco nuovo non ti costa niente. Non c’è quell’investimento per cui vado a guardarmi 85 recensioni e decido questi 15 € come devo spenderli. Provo il gioco e magari mi piace: abbattere questa barriera all’ ingresso ha un valore per noi. Ripeto: è un obiettivo quello di raggiungere un’audience più ampia possibile. Insomma questi sono i ragionamenti che si fanno. Per chi fa prodotti come i nostri, particolari e un po’ al di fuori dei generi consolidati e di tendenza, la curatela è fondamentale. Dal nostro punto di vista noi dobbiamo convincere un gruppo più limitato di persone del valore del gioco invece chi si occupa della curatela si impegna a far vedere quanto ogni gioco proposto vale. Una grossa differenza rispetto all’andare nel selvaggio West e dover vendere a mano ogni singola copia. Su Steam la curatela non esiste ed è tutto completamente derivato dalla valutazione algoritmica delle vendite. Inoltre lo store prende il tuo 30% del fatturato senza darti nulla in cambio.

SE EPIC NON CI AVESSE INVITATO ALL’ESCLUSIVA PC SULLA LORO PIATTAFORMA, NON AVREMMO AVUTO LE RISORSE ECONOMICHE PER FARE IL GIOCO

Se tu un per primo non porti una tua audience allo store e non convinci 5.000, 10.000 persone fuori da Steam che il tuo gioco merita di essere comprato, non avrai mai la scintilla di vendite che permette allo store di considerarlo e di presentare il gioco al resto dell’utenza. Questo crea un appiattimento della varietà di tipologie di gioco che possono emergere: è mostruoso perché non c’è nessuno in grado di valutare. Questa cosa non è molto nota e vale la pena comunque farla conoscere. Come sviluppatore ti viene chiesto di rinunciare in partenza al 30% e poi vediamo se dopo riusciamo a portarti in vetrina. Se tu vai sui nostri giochi su Steam e vai in fondo alla pagina, tra i consigliati ci trovi Cyberpunk e Red Dead Redemption: due titoli che sicuramente hanno un mega bisogno di essere promossi! Perché ovviamente la valutazione che fanno loro, veramente basilare, è che su 100 utenti quelli che comunque è più probabile che vengano acquistati sono questi prodotti. A te utente specifico non ti sto presentando la cosa particolare che può incuriosirti, nonostante io abbia i tuoi dati per valutare, ma ti sto presentando quella che mi fa fare più profitto in maniera più affidabile. Questa cosa ammazza completamente la varietà del mercato e crea un mondo di cloni, perché sei costretto ad abbassare tantissimo il rischio per avere un minimo di prevedibilità sul posizionamento algoritmico all’interno di questo sistema. Google funziona allo stesso modo.

TGM: Mettendo un po’ insieme tutte queste considerazioni: quant’è complicato sopravvivere come studio indie? E ci aggiungo: quant’è complicato farlo in Italia, dove il riconoscimento artistico e professionale è ancora complicato da ricevere?

P: Ma sai, noi non ci interfacciamo particolarmente come artisti con le istituzioni o il mercato italiano in un modo speciale.

TGM: In Europa però ci sono in diversi paesi europei che offrono dei fondi o delle sovvenzioni.

P: Sì, intanto per cominciare noi possiamo accedere a un certo numero di opportunità a livello europeo, che ovviamente in quanto cittadini di uno Stato membro dell’Unione Europea ci spettano. Il primo prototipo di Saturnalia è stato realizzato con un finanziamento al 50% di Europa Creativa. Noi nel 2017 abbiamo presentato un’idea di progetto e l’Unione Europea in qualche mese ha fatto una valutazione dei migliori progetti provenienti da tutti i paesi dell’Unione e ha garantito questo finanziamento a fondo perduto del 50% a una ventina o trentina di progetti. Certo, poi in Francia o in Danimarca ci sono iniziative più specializzate e noi potremmo migliorare.

saturnalia recensione

Le calde accoglienze dei paesini rurali.

L’anno scorso è stato fatto questo First Playable Fund che è il primo fondo italiano per lo sviluppo. A mio parere è stato realizzato in modo molto sbagliato perché non è stato fatto con delle regole rigorose per il controllo della qualità o della tipologia di progetti presentati, ma è stato gestito attraverso un click day: chi prima arriva, prende i fondi indipendentemente da cosa presenta e indipendentemente dalla storia della società. Quindi si sono viste società aperte il giorno prima che chiedono fondi senza che abbiano mai fatto un videogioco in precedenza. L’altra cosa che manca secondo me sono luoghi e momenti di confronto e aggregazione tra le diverse realtà che permettano lo sviluppo di una rete forte di contatti e magari anche la nascita di uno stile o di un un’identità. In Italia siamo molto “ognuno per sé”: sarebbe bello invece che ci fosse uno sforzo sia degli studi sia magari dell’associazione di creare delle reti di interconnessione tra sviluppatori ed editori, che permetta di competere a livello internazionale come industria italiana. Detto questo poi ci sono tutte le difficoltà legate al mondo del lavoro che non sono assolutamente esclusive al cointesto dei videogiochi: garanzie, il costo il costo fiscale, eccetera… In un certo senso noi siamo anche abbastanza avvantaggiati perché tra le varie industrie non abbiamo costi di fornitori, per cui non abbiamo le problematiche dei pagamenti a 90 giorni e del magazzino, o dell’invenduto o altro. Nella piccola imprenditoria italiana abbiamo un certo tipo di vantaggio essendo completamente digitali. Però chiaramente gli altri tipi di difficoltà ci riguardano, tra cui quello dell’accesso al credito che non è competitivo rispetto agli altri paesi, anche solo dell’Unione Europea, senza andare necessariamente negli Stati Uniti.

SE LA MIA PERCEZIONE DEL RISCHIO FOSSE LEGATA AL MANTENIMENTO DI PERSONE AL DI FUORI DI ME, MAGARI MI PRENDEREI ANCHE RISCHI DIVERSI

Quello dei videogiochi è di per sé un business pericoloso, perché non stai vendendo un bene necessario o un bene con una funzionalità specifica, per cui puoi fare delle misurazioni per stabilire cosa serve alla gente: ad esempio c’è bisogno di tubi e faccio questo tipo di tubi. Nel nostro caso il business è convincere la gente che il loro tempo libero merita di essere speso in questo modo: non è una cosa per cui puoi avere delle certezze e la competizione che hai è mostruosa. Tu non competi con l’altro gioco indie horror che esce quest’anno, competi con appunto Netflix, con le uscite con gli amici, con tutto. Quindi adesso noi tra un mese lanciamo il gioco e sappiamo quello che abbiamo fatto, sappiamo quello che abbiamo messo, ma non sappiamo come andrà. Potrebbe non vendere neanche una copia e potremmo chiudere tra un mese. Tutto questo ha un costo emotivo importante, sia per me ma anche per le persone che lavorano con me, perché noi abbiamo un modo di lavorare molto trasparente rispetto allo status dell’azienda e ai rischi che affronta. Questo chiaramente ha dei pro e dei contro: il contro è che è condivisa da tutti la coscienza del fatto che sopravviviamo in base ai successi di ogni singolo progetto che portiamo avanti. Non tutte le industrie hanno questo tipo di problema.

TGM: La metto su all’ironia con una battuta: anche voi però ci mettete del vostro! In un ambiente in cui nessuno cerca mai di prendere una posizione, voi invece seguite una linea che è molto precisa, ha un taglio prettamente politico, ed è qualcosa di raro sia nell’industria del videogioco sia nell’industria dell’intrattenimento italiano. Immagino che sia una sorta di vocazione, fa parte di quello che volete comunicare; perché secondo voi gli altri se ne tengono così lontani?

P: C’è un coefficiente di rischio più alto: nel senso che già stai facendo una cosa rischiosa, aggiungerci in più un altro coefficiente di rischio che moltiplica le tue possibilità di insuccesso, le difficoltà di essere capiti e distribuiti, eccetera, è un rischio che ti prendi se hai il privilegio di sapere che se anche fallissi oggi, lavori con gente talentuosa che può trovare altri lavori o che è in una situazione diciamo di tranquillità. Se i miei genitori non avessero una pensione e li stessi mantenendo io vivrei nel terrore. Io banalmente non ho ancora una famiglia, nonostante abbia 37 anni: se la mia percezione del rischio fosse legata al mantenimento di persone al di fuori di me, magari mi prenderei anche rischi diversi. Per il tipo di cose che mi che mi emozionano e per il tipo di rischio che posso permettermi, questa è una cosa che io ad oggi ho ritenuto possibile per me, però non è per tutti, sia da una parte per una questione di interesse e sia dall’altra parte per la possibilità di prendersi questi rischi. Poi purtroppo il mezzo arranca, fa fatica a svilupparsi, ci sono anche poche dimostrazioni di risultati importanti di giochi che trascendono appunto il genere tradizionale. Di recente c’è stata la presentazione della Gamescom in cui hanno fatto vedere dieci volte lo stesso titolo nella stazione spaziale con gli alieni!

TGM: Ah, sì, è stato tipo il momento in cui dieci cloni di Dead Space si sono incontrati nello stesso posto e mi sono chiesto: qualcuno li ha selezionati, ma come fai a mandarli assieme e non accorgerti che c’è qualcosa che non va?!

Papers Please mobileP: Nintendo ha fatto un Nintendo Direct due settimane [rispetto al momento dell’intervista, ndr] fa con dieci giochi di fattorie: è sconvolgente. Allora c’è qualcosa di marcio alla base perché se ne saranno accorti, ma quello che c’era a disposizione evidentemente era quello. D’altronde quando devi andare a chiedere uno, due o tre milioni di euro per sviluppare un gioco e non hai le basi per garantire di poter fare bene è molto difficile credere che qualcun altro si prenda questo rischio. Qua torniamo appunto alla questione del perché concedere un’esclusiva: chi ne ha la possibilità è bello che lo faccia, per consentire di realizzare cose diverse, sennò l’appiattimento è inevitabile. Certo se da un domani avessimo la prova provata che i giochi con un taglio politico, che parlano di condizioni umana, o che parlano di contemporaneità possono avere un successo o semplicemente una sostenibilità a lungo termine ne vedremo di più. Gli esempi restano sempre gli stessi: Papers, please e… faccio fatica a farmene venire in mente un altro…

TGM: Effettivamente… c’è il nuovo gioco di quello di Papers, please!

P: [Ride] Sì, che però è meno politico. Bellissimo, eh, narrativo, psicologico, ma non è politico. Non so, adesso è andato molto bene ovviamente Disco Elysium, però ha un’ambientazione fantastica, parla di società però con quel taglio lì, anche per in realtà si svolge in un luogo immaginario. Il confine è molto labile. Ci vorrebbero più dimostrazioni di sostenibilità.

TGM: Io vi considero ormai di veterani dell’industria in Italia. Siete nell’ambiente da un po’: negli anni hai percepito qualche tipo di miglioramento nel settore?

P: Quando abbiamo cominciato nel 2010 il panorama era abbastanza limitato. Oggi ci sono tantissime realtà che fanno non necessariamente prodotti importanti dal punto di vista artistico ma competitivi dal punto di vista della pulizia tecnica, della competenza o della qualità. Ci sono anche diverse realtà, penso per esempio a LKA, che fanno dei prodotti che hanno anche l’ambizione artistica e che partecipano all’innovazione e al progresso del genere. A livello internazionale se dal 2006 al 2014 abbiamo visto un’alta un’impennata di nuovi generi e nuovi approcci, al punto che sembrava ci fosse all’orizzonte l’alba di una rivoluzione nel videogioco, pronto a diventare il nuovo cinema per la capacità di affrontare temi diversi, in realtà nel tempo questa cosa si è abbastanza arenata. Sono passati 10 anni ma con le console ci giocano ancora i gamer e gli appassionati: la stragrande maggioranza dei giochi che vendono sono giochi di genere all’interno di generi consolidati (e te lo dice uno che ha giocato 300 ore a Elden Ring, quindi non è che mi faccia schifo quella roba lì!). Però mi rendo conto che rispetto alla promessa di una rivoluzione dei contenuti data dalla distribuzione digitale e dall’accessibilità dei mezzi di produzione, questa cosa poi non si è manifestata e siamo appunto ancora qua a guardare i 18 trailer di Dead Space. Può essere che io non sia più sul pezzo come una volta, ma mi sembra che manchino gli indizi che possano far pensare che questa cosa cambierà in maniera radicale nei prossimi cinque o dieci anni. Spero di sbagliarmi.

TGM: Ultime domande di chiusura, un po’ più leggere: qual è il gioco vostro a cui sei più affezionato?

P: Difficile dirlo, ci sono dei prototipi, delle cose piccole che non abbiamo mai completato, ma a cui sono affezionato. Abbiamo fatto per questo Kickstarter di uno spazio coworking a Los Angeles (che poi non è stato realizzato, ma vabbè) un gioco si chiama Video Heroes, mai rilasciato, in cui gestisci un video noleggio di videocassette e hai dei clienti che arrivano e ti chiedono: “Cerco quel film, quello con gli zombie, gli alieni, come si chiama?!”. E tu hai questa libreria di videocassette, puoi effettivamente prenderle, manipolarle e leggere le quarte di copertina e decidere cosa dare al cliente. In base all’affinità tra la richiesta e la consegna ricevi un bonus punteggio. Penso che fosse un’idea carina: forse anche il fatto di non averlo mai sviluppato e finito gli conferisce anche tutto quel potenziale delle cose non fatte, dell’immaginario… invece sai, i giochi passati sono passati e quindi non ti ci riconosci più, perché non li faresti più così. Il gioco in corso invece è un talmente una cosa traumatica, quasi un parto, che è difficile avere un legame emotivo mentre la stai facendo. Ci sono anche i ricordi che sono più legati magari alle persone, ai momenti, all’avere 26 anni e lavorare con tre amici al gioco in una casa per tutta l’estate. Sono quelle le cose nostalgiche, significative, almeno per me.

TGM: Quindi, abbiamo parlato dei giochi passati, di quello presente… c’è già quello futuro?

P: Ci sono diversi giochi futuri non annunciati. Non so se hai visto che abbiamo pubblicato Milky Prince l’anno scorso, che è questa visual novel scritta diretta-disegnata-musicata-programmata da Lorenzo Redaelli, che è un giovane autore milanese. Questo è stato il nostro primo esperimento non da publisher, ma da coproduttore. Praticamente abbiamo adottato il progetto, che è stato sviluppato da una persona che, nonostante fosse talentuosissima, non aveva la piena competenza tecnica per trasformare il suo lavoro in un prodotto vendibile. Così l’abbiamo confezionato, ottimizzato, trasformato, editato, aiutato con la pianificazione eccetera. L’abbiamo trasformato in un prodotto commerciale. Questa è un’esperienza che mi è piaciuta molto anche perché è raro trovare qualcuno che abbia una comune sensibilità rispetto a quello che il videogioco può essere e aiutarlo a trasformare questa cosa in un prodotto che può raggiungere un’audience.

TGM: Dove vi siete conosciuti?

P: Ci siamo conosciuti perché lui era un mio studente, quindi io conoscevo il progetto e l’ho trovato un progetto eccezionale. Mentre ci stava ancora lavorando da solo era già un gioco fatto tutto da una sola persona, con una grande riconoscibilità visiva e musicale, con più di un’ora e mezza di gameplay, quindi un prodotto molto complesso. La mia sensazione è stata che questo gioco dovesse essere realizzato e pubblicato. Nel futuro cureremo altri progetti di questo tipo, probabilmente prima di dedicarci al nostro nuovo grande progetto.

TGM: Avete già delle idee lì che volano e non vedono l’ora di uscire?

P: Sì, tante, nel senso che sia io sia i miei colleghi abbiamo taccuini di idee più o meno sviluppate di giochi possibili: quello che succede di solito è che queste idee tendono a fondersi e a trasformarsi. Poi quando si sviluppano invece in un concept solido, cannibalizzano anche le idee laterali che magari erano soltanto un momento particolare, un tipo di gameplay o un tipo di interfaccia. Poi queste cose contribuiscono alla formazione di un prodotto inteso come un’identità e un processo lungo. Noi non siamo ancora in pre-produzione di un singolo progetto, abbiamo diverse idee con cui stiamo giocando, per vedere dove ci portano. Possono magari convergere.

TGM: Ok, ultima domanda: ti lascio carta bianca, le ultime parole di TGM sono tue, puoi dire quello che vuoi!

P: Io vorrei lanciare un appello agli appassionati di giochi, chiedendo loro di cercare di ricordarsi delle persone che ci sono dall’altra parte dello schermo e che hanno lavorato ai prodotti che loro amano o odiano. Siamo persone, con i nostri limiti, le nostre debolezze e la nostra limitata capacità di digerire e gestire emozioni e difficoltà. Quindi per esempio tendiamo a leggere ogni singolo commento, ogni singola recensione che viene scritta su quello su cui lavoriamo per anni e leggere su un tweet che il tuo è gioco mediocre può fare la differenza. Perché c’è una buona probabilità che quel tuo sfogo, pensato per ridere con gli amici in uno spazio pubblico, venga letto dalla persona che ha lavorato a quel titoli e che gli rovini la giornata. Quindi negli spazi pubblici di discussione sarebbe bello ricordarsi che ci sono delle persone che hanno lavorato a questi progetti e che spesso le limitazioni non sono conseguenza di menefreghismo, sciatteria o avidità ma dei compromessi fatti con molta sofferenza e con molta consapevolezza dei sacrifici che si devono fare. Forse un po’ più di umanità in questa industria non guasterebbe.

Articolo precedente
tchia

Tchia – Anteprima

Articolo successivo
storia dei videogiochi

Storia e memoria nel videogioco contemporaneo – Editoriale

Condividi con gli amici










Inviare

Password dimenticata