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Tunic

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Il viaggio di Tunic – Speciale

Diventare una volpe, essere una volpe, elevarsi tale. Elevarsi al meglio. Immaginate essere in una favola, di partire senza nulla, di cercare il bello, per poi accorgervi che, in realtà, basta poco per essere felici. L’immaginario di Tunic, creato da Funji ed elaborato da Andrew Shouldice, conduce in un mondo colorato, eppure appannato, come fosse costantemente celato. Farò un collegamento coraggioso: durante l’Era degli Alberi, uno dei principali istanti che determinarono la creazione di Arda, a dare reale ninfa al mondo fu la luce.

Fu la luce splendente dei Valar a illuminare la vita, con essa che divenne splendida ed eterea, intoccabile, nonché densa. Quegli alberi presero vita dalla volontà della natura, che diede così origine a un mondo intoccabile, incontaminato. Puro, nonostante le melliflue intenzioni di Sauron. Quando giocai per la prima volta Tunic, nel 2022, a darmi queste sensazioni fu quel libretto delle istruzioni che divenne una parte focale dell’esperienza.

Composizioni musicali che toccano l’anima e la sfiorano come le dita si avvicinano alla corda di un liuto

A essere tuttavia ancora più determinante, quando compresi che si trattava invece di una grande e solidissima elaborazione di The Legend Of Zelda, immaginai di sentirmi un ragazzino degli anni ’80. Fu complesso carpire quei momenti, come non fu facile arrivare a comprendere come i tempi delle console di vecchia generazione ebbero un impatto così importante. Studiare il passato è un po’ cosa mi attira da sempre, e riscoprire Tunic, cercando dei punti di contatto tra le realtà che crea, sospese tra la tradizione e l’ammodernamento, è stato un po’ come fare un tuffo nel passato. Non è stato solo tale, però, e lo si comprende sin dalle fondamenta. La produzione è un’opera intellettuale, elevata all’asintoto per essere la prova inconfutabile di quanto un ottimo game design alle volte sia più impattante di mille parole. Sia peraltro più coinvolgente del termine “Divertente”, usato talvolta a con fin troppa leggerezza. No, sereni: Tunic lo è. Trasporta in una realtà bellissima ed eterea, e in seguito accompagna in un viaggio lucido, composto da storie e momenti trascinanti. E io li ho provati in diverse occasioni.

C’erano degli alberi, poi il silenzio…

Li ho provati quando ho mosso la mia lama, quando la stessa si è smussata e mentre mi affacciavo a un mondo che andava solo scoperto. Che andava solo… ecco, solo accettato. Volete che lo dica? Che esageri nel termine, una volta per tutte? Se Tolkien ha creato una mitologia incredibile, Andrew Shouldice ha dato vita a una profonda e meravigliosa lezione di game design. La stessa che Shigeru Miyamoto diede con The Legend Of Zelda.

QUANDO SALVARE UNA PRINCIPESSA FA PARTE DEL VIAGGIO

Penso sempre a un momento importante, nello stilema ludico di tutte le esperienze dedicate a The Legend Of Zelda: all’elaborazione del game design. The Legend of Zelda: Link’s Awakening, meravigliosa opera della branca più consistente di Nintendo, è la costola d’oro della progettualità della Grande N. Questa produzione permette di esplorare un mondo che, a sua volta, è pregno di situazioni diverse, di nemici e arricchito dunque da un level design di primissimo livello. La produzione del team di Kyoto, insomma, ha dimostrato quanto sia semplice creare il game design semplicemente basandosi sulla legge della ghianda e dell’albero. Spiega come da un fiore, in realtà, si origini tutto quanto.

Grazie a The Legend Of Zelda, abbiamo Tunic

È un pochino cos’è accaduto con Tunic, opera che riprende le atmosfere di The Legend Of Zelda, scegliendo però un suo approccio comunicativo per mostrare le differenze sostanziali in termini di game design. L’opera di Andrew Shouldice coinvolge perché mette sin subito in chiaro che la storia è criptica quanto un souls, e che alla sua conclusione c’è un messaggio di fondo da capire, analogo a quello di Shadow of the Colossus. Talvolta è dura riuscire a capire quanto l’immenso panorama videoludico abbia dalla sua produzioni di questo tenore, capaci sia di coinvolgere, quanto di meravigliare.

Nel buio, a volte c’è la risposta…

Tunic lo fa attraverso, e unicamente, il suo gameplay. Il giocatore stringe fra le dita una spada, difendendosi con uno scudo. Sono strumenti, comunque, da raccogliere nella prima parte dell’esperienza. Andrew Shouldice fa capire che è necessario esplorare per arrivare a possedere questi strumenti, utili e fondamentali nella prosecuzione dell’avventura allo stesso livello degli oggetti che si possono trovare lungo l’esperienza. C’è una caratteristica unica, probabilmente originalissima, nel linguaggio della produzione: il suo linguaggio.

INVENTARE UNA LINGUA INCOMPRESIBILE

A Tolkien servì tanto studio e tempo per elaborare il Sindarin, il Quenya e ogni linguaggio della Terra di Mezzo. Stando alle sue lettere, impiegò molto tempo per arrivare a creare la Lingua Nera di Mordor. La filologia, che si collega in modo preciso ai popoli nei videogiochi e alle loro storie, permette di capire di cosa si sta parlando con una certa profondità. Quanto si vede a schermo, infatti, è un linguaggio che s’impara come si farebbe come un dialetto qualunque. Io parlo patois, per esempio, una Langue d’Oil, ovvero il dialetto parigino. A sua volta, il Patois è il dialetto ufficiale della Valle d’Aosta; in parole povere, è franco-provenzale. È una lingua che si apprende da bambini e che si parla con chiunque. L’apprendimento della lingua che in tanti considerano incomprensibile avviene adoperando quegli oggetti nel corso dell’esperienza.

A chi serve un libretto delle istruzioni? A me, ovvio!

È tutto game design, insomma. La produzione non spiega volutamente alcunché poiché spinge alla scoperta. Quando mia sorella capiva il nome mela in Patois, per esempio, la stava mangiando. Nei panni di una volpe, noi capiamo come plasmare questo mondo fantastico pregno di segreti e misteri. Non è solamente l’ausilio del libretto delle istruzioni a fornire degli elementi interessanti sui cui riflettere per gran parte dell’esperienza, mentre si comprende al meglio il contesto, quando esso diventa il centro focale dell’opera. La meraviglia che si avverte nella scoperta, in tutta la sua profondità, si avverte quando si scopre un percorso segreto. Quando la musica di Tunic, strimpellata attraverso una chitarra e un pianoforte, esalta quei momenti mentre si comprende che non si è soltanto delle piccole volpi, ma dei viandanti, dei testimoni di un mondo incredibile, viaggiatori di mondi e di esperienze. Tunic abbraccia il giocatore attraverso un respiro incredibile, facendolo accomodare, non fornendogli tuttavia alcunché, nessuna informazione.

Vorrei solo non smettere di fantasticare e sognare. Solo questo

Le parole sono da capire, da carpire, da sentire dentro, da fare proprie, da condividere; è lo spirito della condivisione a primeggiare su tutto. Intanto, avviene qualcosa di speciale, nel corso dell’apprendimento: il desiderio che tutto quanto non finisca, che si espanda, che definisca ancora di più il viaggio che si sta sostenendo, che si sta attraverso, che si sta sentendo. Perché io ho percepito sulla pelle ogni momento mentre la volpe scopriva qualcosa di più su di sé, e mentre i paesaggi luccicavano sullo schermo, apparendo in sogno.

IL SOGNO DI TUNIC

Se la linfa vitale di un popolo è il suo linguaggio, come anche dimostrato da Tunic, dall’altra c’è la volontà di condurre il giocatore a un sogno. Spesso, mi capita di dormire e sognare dei luoghi che vorrei visitare. Ciò avviene anche grazie ai videogiochi che sto giocando: scopro che non è una fuga dalla realtà nel momento in cui diventa una cosa seria. Tunic, a differenza di tante opere sul mercato, si permette di fare una cosa speciale: esalta la visuale di quanto si vede facendolo apparire come un sogno remoto e lontano. Eppure, cosa si sta giocando è reale, è il segreto per cui vale la pena avanzare nel viaggio, per cui si può percepire la natura sulla propria pelle, e non solo. È come se la volpe, insomma, viaggiasse al tempo dei pensieri di chi lo sta giocando.

Luci amene e meravigliose.

In una natura volutamente wholesome, impregnata di meraviglie, di sensazioni e anche di sapori, si avverte qualcosa di familiare, qualcosa che appartiene al passato di ciascun giocatore. Nel provare quei sogni ricorrenti, mentre la luce di Tunic attraversa ogni parte del mio essere, comprendo che la reale scoperta del game design dell’opera avviene, per l’appunto, attraverso la scoperta. L’esplorazione raggiunge dei picchi assoluti attraverso l’utilizzo del libretto delle istruzioni, l’unico modo per capire dove andare, come raggiungere un luogo e risolvere un qualsivoglia problema. Già, un qualsivoglia problema.

Tunic è l’esempio perfetto di cosa significhi arrivare a risolvere un proprio problema

Tunic è l’esempio perfetto di cosa significhi arrivare a risolvere un proprio problema, mentre si cerca una risposta nel mare di incomprensioni, di paure e di insicurezze di cui è pregno il mondo. Non è semplice cercare di annullare le proprie paranoie, e in questo la produzione di Andrew Shouldice insegna come fare. Mostra che è possibile arrivare alla conclusione semplicemente esaurendo ogni possibilità. La sua produzione, insomma, è la dimostrazione di quanto la vita, attraverso l’utilizzo del gameplay, possa comunque offrire delle possibilità incredibili.

QUANDO IL SOGNO DIVENTA REALE

Penso che a dare tanto, molto, all’intera opera sia l’ambientazione. A decantarne e a offrirne visioni molteplici, arricchite dalle sensazioni per cui scoprire diventa speciale, c’è il passato, ma soprattutto il presente. Tolkien scrisse che, se le persone dessero più importanza alla casa che all’oro, sarebbe un posto migliore.

A decantarne e a offrirne visioni molteplici, arricchite dalle sensazioni per cui scoprire diventa speciale, c’è il passato, ma soprattutto il presente

La volpe, come una comunissima viaggiatrice di un mondo che non conosce, e che scopre attraverso gli errori, che si applicano attraverso il game design, capisce di essere al centro di una vita da riprendere in mano. Il messaggio finale del viaggio, dunque, è questo: attraversare i confini del tempo e i suoi oceani per giungere, infine, a una consapevolezza maggiore.

Non ho mai visto una cascata più bella di questa.

È come l’Era degli Alberi da cui diede origine al mondo, solo che in Tunic si compone in modo diverso. È l’era della volpe, quella da cui tutto è aggrappato a un sottile rimasuglio di speranza. E la speranza divampa, se si vuole, come un fuoco etereo.

La volpe si appoggiò al tronco di un albero. Esso sembrava conferirle un po’ di conforto. In quel mondo che non comprendeva, disseminato di misteri e paure, c’era il mistero. Di quei segreti conosceva poco e nulla, ma era certa che niente l’avrebbe spaventata, a meno che non fosse reale. Camminava all’interno di una grotta dalla quale un profumo di muffa sulle pareti attirava delle api, probabilmente consapevole che non avrebbero trovato alcunché, se non dell’acqua piovana che discendeva da una parete, scavando in seguito un masso. La creatura rinunciò alla scoperta di quel luogo, preferendo seguire un’altra strada in discesa, sui cui degli arbusti segnavano il cammino.

La volpe giunse a una casa posta sul limitare di un boschetto. Quando aprì la porta, davanti a sé vide un tavolo capovolto. Quella stanza, in realtà, non aveva nulla in ordine. Chiunque vi abitasse, tuttavia, aveva lasciato dei segni illeggibili sulle pareti dell’abitazione. La volpe si avvicinò a una scalinata, che si infilava attraverso le pareti del muro, bagnate da un po’ d’acqua. Ci mise un po’ ad accorgersi che attorno a lei era tutto in rovina, e che il tetto minacciava di cadere giù da un momento all’altro, pronto a dare il benservito a tutto quel disastro. La volpe attraversò un corridoio, superò delle macerie e, infine, giunse a un’altra stanza. Al centro c’era una spada

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