Cosa rende "vivo" un mondo virtuale – Speciale

Negli ultimi anni mi capita sempre più spesso di rimanere affascinato dalla crescente capacità degli sviluppatori di creare mondi vivi, credibili, quasi illusori nella cura per il dettaglio che mettono in mostra.

Ci sono mondi che lavorano quasi interamente sull’immaginario, facendo qualcosa di artisticamente straordinario e dando vita a mitologie talmente dense da perdersi nelle pieghe delle community. Mi viene in mente l’esempio forse più fulgido di questi anni, Elden Ring (ma il discorso si può ampliare a tutta la produzione From Software), mentre altri, quelli che saranno protagonisti di questo speciale, sono tanto efficaci nel trasmettere suggestioni, atmosfere, visioni, quanto (e soprattutto) di mettere in scena quotidianità, stratificazione sociale e culturale, legando il passato al futuro e “vivendo” anche fuori dalle vicende dei loro protagonisti e del servizio al gameplay. Un senso di meraviglia che sublima l’intento originario del videogioco: trasportaci in altri dimensioni, epoche, vite, in ambienti tridimensionali sempre più sensoriali, avvolgenti, abitati.

QUOTIDIANITÀ

È proprio da qui che voglio partire, e lo voglio fare con un esempio abbastanza lampante delle possibilità date dal mix di evoluzione tecnica e know how pluri-generazionale degli sviluppatori. Final Fantasy VII Rebirth lavora sulla base solidissima del titolo classe ’97, che creò uno dei mondi più interessanti, a livello visivo e tematico, della sua generazione, ampliandone spazi, senso di scala e racconto umano in questa re-immaginazione. Prendo ad esempio Rebirth e non Remake perché Midgar era, già allora, una masterclass di rappresentazione sociale e politica nel videogioco, nonostante la stilizzazione grafica; Rebirth porta quello spirito e quella cura in tutte le altre città in cui Cloud e compagni si ritrovano a passare, dando tempo e modo di esprimersi a luoghi allora meno rilevanti, più tratteggiati. Ecco allora che Kalm, Costa del Sol, Junon assumono un altro peso nel racconto, facendone emergere il passato per descrivere meglio il presente post-bellico.

Una lezione di yoga in crociera, verso Costa del Sol.

Il senso di quotidianità che si respira in questi momenti di transizione è quella scintilla di vita che serve per amalgamare gli elementi dell’opera

Città rase al suolo durante la guerra tra la Shinra e Wutai che ora sono ridenti borghi dove la vita scorre placida, villaggi di pescatori cannibalizzati dalla multinazionale che si è presa prima il loro mare, per costruire un reattore Mako sottomarino, e poi il cielo, oscurando quello che ne rimaneva con l’immensa città fortezza di Junon e il suo enorme e caratteristico cannone, replicando il dramma dei bassifondi di Midgar. In contrapposizione troviamo il turismo sfrenato di Costa del Sol, lontano (apparentemente) dai tumulti del Pianeta, meta di sfarzose crociere e vacanze a 5 stelle, tra cocktail, tuffi e divertimenti di ogni genere. Il tutto descritto non solo attraverso la main quest, e quindi a corredo delle azioni dei protagonisti, ma soprattutto passeggiando, prendendosi dei momenti per ascoltare la gente parlare tra loro, aiutandola con qualche affare o, semplicemente, osservando quello che è un dettagliatissimo affresco visivo. Il senso di quotidianità che si respira in questi momenti di transizione è esattamente quella scintilla di vita che serve per amalgamare gli elementi dell’opera.

“Quotidianità” è una mattinata di pioggia a Kumurocho.

Un’altra serie che fa della ricostruzione della quotidianità una parte fondamentale del suo fascino è Yakuza. Che sia la più classica delle Kamurocho o le deviazioni per Yokohama, Osaka, Okinawa, lo spaccato di Giappone che ogni capitolo offre, al di fuori dei drammi malavitosi, è una routine cittadina tra le più credibili e avvolgenti. Salaryman che camminano a passo svelto verso l’ufficio, gente della notte, ubriaconi, studenti, tutti indaffarati in una vita inesistente che sembra così reale. Tra tutti gli elementi ricreati in-game forse i ristoranti sono i più determinanti nella sensazione di trovarsi in altri corpi e luoghi. La necessità di mangiare per ripristinare punti vita impone, o comunque suggerisce, una serie di abitudini che si cementano di ora in ora, di capitolo in capitolo, vivendo l’ambiente cittadino in modo molto più intimo e proprio, rispetto a ciò che accade solitamente nei videogiochi, godendone anche in modo più lento e tranquillo, contemplativo, quando non si menano le mani.

Sotto questo aspetto Insomniac, in Marvel’s Spider-Man 2, usa frequentemente e in maniera molto efficace momenti di slow gameplay che hanno l’obiettivo di immergerci nella New York minacciata da Kraven e Venom. Visitare un museo di Harlem sulla cultura musicale afroamericana, fare un giro serale al luna park di Coney Island in compagnia di MJ e Harry o un tour della nuova start-up di quest’ultimo; ognuna di queste numerose e interessanti sezioni è una boccata di atmosfera, di contesto narrativo e/o culturale, da giocare a pieni polmoni; è anche la dimostrazione che gli sviluppatori non vogliono più andare dritto per dritto, dare al pubblico semplicemente il gameplay di cui hanno bisogno, ma sentono il bisogno di strutturare, stratificare, dedicarsi a momenti che i più potrebbero trovare perfino noiosi, superflui, ma che, alla fine dell’esperienza, si rivelano tanto preziosi quanto un combat system soddisfacente.

Il Museo della Cultura di Harlem è una delle sezioni che racconta meglio la New York di Spider-Man 2.

red dead redemption 2 è un racconto di spazi, panorami, farà, bevute e lunghe cavalcate

Questa evoluzione degli ambienti di gioco, in particolare dei mondi aperti, è possibile anche grazie a chi si può permettere di fare ciò che vuole, ovvero Rockstar, che con Red Dead Redemption 2 tirò fuori quella che è praticamente una biografia fittizia, uno spaccato di vita di un cowboy di fine ‘800 e di fine d’epoca, Arthur Morgan. Un racconto di spazi, di panorami, di accampamenti, falò, chiacchiere, spettacoli di cabaret, bevute, sedute dal barbiere, lunghe cavalcate, ancor prima che di rapine, taglie, sparatorie e faide in un far west che ormai si avviava a spegnersi come un fuoco all’alba della modernità. Una storia di rara intensità vissuta nei panni di chi deve fare i conti con un mondo che sta cambiando. A mio modo di vedere, il mondo virtuale più (in)credibile mai creato ad oggi, lo stato dell’arte del videogioco, proprio per i suoi tanti momenti di “vuoto” utili a far sedimentare quello che si vede e si vive; uno spettro di emozioni e sensazioni straordinariamente vario e significativo.

TRASFORMAZIONE

Un’altra caratteristica capace di rendere i mondi “vivi” è la trasformazione dell’ambiente di gioco attraverso l’interazione, le azioni del giocatore, ma anche tramite colpi di scena capaci di ribaltare e modificare l’ambiente a cui eravamo abituati fino a qualche minuto prima. Uno dei titoli in grado di trasmettere la capacità tattile di plasmare, migliorare il mondo, è sicuramente Okami del fu Clover Studio, dove le pennellate del gameplay fanno rifiorire un ecosistema secco, arido, maledetto, che attraverso le imprese di Amaterasu tornano alla vita. Un Giappone dove la natura è mistica, dove è il divino a influenzarne i cicli, con la popolazione che si affida totalmente alla benevolenza degli déi, sentendosi quasi onorati a interpretarne uno.

il giappone di Okami è un posto dove la natura è mistica, strettamente connessa con il divino

Vedere il primo albero di ciliegio sbocciare, come la primavera dopo l’inverno, la luce dopo il buio, è un’immagine che si sposa bene anche alla liberazione di territori sotto il giogo di un tiranno. Come nel recente Unicorn Overlord, dove la stilizzazione grafica tra 2D e anime, cifra stilistica di Vanillaware, non depotenzia la vivacità della world map, piena di personaggi, villaggi diroccati e gloriosi castelli da riportare allo splendore grazie all’intervento dell’Esercito di Liberazione, guidato dal principe Alain, a capo della rivolta armata contro Zenoiria e il generale Valmore. Una sensazione di rivalsa molto forte, che dà un gusto unico ad ogni battaglia vinta, assaporandone le conseguenze positive, la gioia della popolazione e l’acclamazione che ne consegue; salvatori della patria.

L’impagabile sensazione di liberare il mondo dal male e vederlo rifiorire.

Trasformazioni che possono avvenire anche all’inverso, come in Dragon Quest XI e il suo colpo di scena di fine secondo atto, la vittoria del male e il mondo che sprofonda nell’apocalisse, portandoci poi a ri-esplorare città prima splendenti, allegre e coloratissime, ora decadenti, senza speranza, con i sopravvissuti che piangono i loro morti. Un momento di grande impatto, per certi versi inatteso rispetto allo sviluppo cui i JRPG ci hanno spesso abituato negli anni. Se si parla di mondi che riflettono gli avvenimenti del racconto, bisogna citare nuovamente il lavoro di Insomniac in Spider-Man 2, perché ogni super-cattivo che ci si trova da affrontare infetta la Grande Mela come un virus. I resti della battaglia iniziale contro Sandman che persistono durante le prime ore di gioco, con interi isolati sommersi dalla sabbia, le scorribande dei Cacciatori di Kraven, le loro basi costruite sui tetti dei grattacieli e nelle aree dismesse, gli incendi appiccati dai seguaci della Fiamma, i nidi di simbionte che si arrampicano nella skyline della città, con la popolazione sempre più infetta, l’epidemia che cresce di ora in ora, di missione in missione, in modo credibile e inesorabile fino a vedere la metropoli svuotarsi, riportando alla mente ricordi del recente passato pandemico.

prendono il sopravvento le conseguenze ambientali di questa ambizione imperialista e dello squilibrio che ha portato nel potere magico che sostiene la natura e i suoi cicli

Un’altra situazione che mi rimase molto impressa, similmente al discorso di Dragon Quest XI, fu la discesa nelle tenebre di Final Fantasy XV. La caduta di Insomnia e la conquista del suo cristallo da parte di Niflheim ha inizialmente implicazioni soprattutto politiche, con la guerra e le sue conseguenze che occupano gran parte del racconto; piano piano (e riprendendo certe suggestioni del settimo e dell’ottavo capitolo) prendono però il sopravvento le alterazioni ambientali, causate da questa ambizione imperialista e dallo scompenso che ha portato nei delicati equilibri magici che sostengono la natura e i suoi cicli. I mostri sempre più presenti nella quotidianità e una notte che cala sempre prima, come un sipario sul futuro dell’umanità, condizionando il gameplay, la vita della gente e minacciando un’oscurità eterna, sia filosofica che pratica. Un capitolo travagliato, a cui però non si può negare un world building straordinario e suggestivo.

SENSO DI SCALA

Prendo spunto dal quindicesimo capitolo della saga Square-Enix anche per approfondire un altro aspetto capace di donare vitalità e immersione in un mondo virtuale: il senso di scala. Uno degli aspetti più controversi della vicenda di Noctis e compagni furono gli spostamenti semi-automatici a bordo della Regalia da un punto all’altro della mappa. Benché quasi totalmente svuotati di gameplay e interazione tattile, questi momenti di raccordo vennero usati benissimo dagli sviluppatori per costruire l’atmosfera e dare ancora più corpo all’amicizia tra i quattro protagonisti, dedicando il giusto tempo ai viaggi, con un senso della distanza efficace e coerente, senza che l’azione distraesse dalle loro conversazioni. Ne capisco le necessità di design, ma storco sempre un po’ il naso quando ci si ritrova in una situazione del tipo (ed ora esagererò un po’): “partiamo per questo viaggio lungo e pericoloso” e l’obiettivo è poi a 500 metri di distanza.

Final Fantasy XV è un gran road trip.

Una cosa che evitano di fare anche gli ultimi due capitoli di The Legend of Zelda, in particolare il più “vuoto” e sperimentale, in termini di gestione degli spazi, Breath of the Wild che, tenendo fede al respiro e alla natura protagonisti del suo titolo, impegna il giocatore in lunghissime cavalcate in territori selvaggi, imponendo traversate dove è anche necessario analizzare il terreno, trovare punti di riferimento, aggirare ostacoli geologici, inventandosi un percorso che, di conseguenza, porta ad affrontare innumerevoli variabili di gameplay. Soprattutto nelle prime fasi dell’avventura, ancora mal equipaggiati, con la sensazione di trovarsi in balia degli elementi, la necessità di nutristi e vestirsi adeguatamente, quasi da survival game, l’esperienza è intensissima, spesso anche angosciante, ostile, eppur bellissima. Tears of the Kingdom utilizza gli stessi spazi ma riempie la mappa di molti più elementi e, soprattutto (e logicamente in base all’evoluzione del mondo di gioco) dota Link e il giocatore di molti più strumenti per fronteggiare l’ambiente, potenziando il gameplay e depotenziando il senso di smarrimento, non più necessario ai fini ludo-narrativi.

La seconda opera di Fumito Ueda introdusse invece un nuovo modo di interagire con creature enormi

Se si parla di spostamenti significativi, senso di scala e mondi impervi, il nome di Death Stranding è la prima opera che viene in mente, probabilmente. Un gioco che, letteralmente, ci ri-insegna a camminare in spazi virtuali, pesando ogni passo, prestando attenzione a minacce naturali e sovrannaturali, da soli, assoggettati alla meraviglia di spazi aperti ritornati quasi primordiali, dopo la drammatica ritirata della civiltà umana. Il viaggio dal punto A al punto B non è un momento di collegamento tra due eventi di trama, ma il senso stesso del gameplay. La soddisfazione di essere arrivati dopo averne passate di tutti i colori, un luogo sicuro in cui riposare, farsi una doccia, bere qualcosa (ritornando alla quotidianità) diventa la più grande conquista dell’esperienza e una prova, per l’autore, di essere riuscito a veicolare tutte le sensazioni che voleva. Chiudo citando un senso di scala un po’ differente da quello che mette in relazione una persona all’ambiente, ovvero quello che contrappone una persona a una creatura. Shadow of the Colossus, ancor di più nell’efficace fotorealismo del remake, offre un senso di soggezione verso creature gigantesche molto diverso, fisico, tangibile, rispetto ad altre rappresentazioni. Spesso il “boss gigante” è solo una questione estetica, penso a titoli come Bayonetta, i primi God of War o in generale gli action di quello stampo. La seconda opera di Fumito Ueda introdusse invece un nuovo modo di interagire, fisicamente e psicologicamente, con creature enormi, nemiche (come in questo caso) o amiche (come nel successivo The Last Guardian), rendendo necessario lo studio dei movimenti dell’essere e di come esso interagisce con l’ambiente circostante, con gli spazi e gli ostacoli. Per me un risultato che non è ancora stato eguagliato, per un mix di fisicità, impatto artistico, level design e, non ultimo, motivazione narrativa.

La natura, in Death Stranding, va trattata con grande deferenza.

Si potrebbero fare ancora tantissimi esempi e purtroppo non ho ancora avuto modo di giocare titoli che, sono abbastanza sicuro, potrebbero benissimo essere ottimi esempi di quello che ho provato, spero in maniera efficace, a raccontare in questo speciale. Oggi il videogioco Tripla A ha secondo me il dovere di raccontare Mondi a 360°, consapevoli che molti giocatori certi elementi e sfumature non le vedranno neanche, prendendosi rischi e prendendosi i loro tempi per raccontarli, magari attraverso quest secondarie noiose ma utili a creare contesto, sfaccettature, o momenti di vuoto dove lasciar parlare i panorami, i colori, i suoni. La speranza è che questo periodo di crisi dell’industria non fermi il progresso e la voglia di evoluzione che è sempre stata parte fondamentale della macchina videoludica, ritrovandoci in spazi sempre più capaci di assottigliare il confine tra sensazioni reali e virtuali, tra noi e i nostri alter ego.

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