Se siete arrivati a questa pagina da questo editoriale, tutto a posto. Altrimenti: sappiate che questo è un editoriale “incompleto”, abbandonato in favore di quello di cui sopra, ma che mi spiaceva lasciare lì.
Breve nota metodologica prima di partire con il simulatore di pesca negli abissi Dredge. I giochi sono “circa” indie perché non tutti di loro rientrano strettamente nell’etichetta indie, del cui significato si è discusso molto; diciamo che come minimo hanno tutti il “feel” da gioco indie, anche se alcuni di loro in realtà hanno un publisher. È il caso, per esempio, di Dredge, pubblicato da Team17: un gioco che ci mette nei panni di un pescatore che, a bordo della sua barchetta, compie il suo mestiere su un arcipelago sperduto e… decisamente inquietante. Non ci vorrà molto, infatti, per scoprire che forze oscure operano in questi mari, contorcendo e mutando la fauna locale. La storia è di per sé piuttosto semplice, la risoluzione a essere onesti un po’ deludente, ma il punto di forza di Dredge sta proprio nell’andare a pescare, girovagare per gli atolli, scoprire il mondo di gioco. A dispetto delle premesse, più rilassante che pauroso: riuscirebbe a giocarci anche Daniele “Alteridan”. Forse.
Tocca poi a SANABI, sviluppato da Wonder Potion e pubblicato da Neowiz, che del quintetto qui presente è senza ombra di dubbio il mio preferito: un action platform velocissimo che punta più sull’azione rapidissima che sugli schemi da pad lanciati contro il muro, un’azione che ruota tutta intorno al rampino che è allo stesso tempo strumento e arma del nostro protagonista, un soldato senza nome il cui unico pensiero in mente è la vendetta. Lo sfondo delle sue avventure è una città corporativa, una società ultracapitalistica che non si può fare a meno di ricondurre, chiaramente estremizzata, a quella che è la realtà odierna della Sud Corea (terra natia degli sviluppatori) e più in generale della società occidentale; non è un caso che uno degli executive della Mago Corporation, di cui troviamo la gigantografia in uno degli uffici, abbia dei lineamenti smaccatamente ispirati a quelli di Elon Musk. A questo si aggiunge una storia che, per quanto si riveli tutto sommato semplice una volta dipanata in pieno (ma è un difetto?) è narrata davvero magistralmente, per carità con un inglese talvolta un po’ maccheronico ma che non inficia assolutamente i momenti dal forte impatto che costellano lo svolgimento del gioco, tutti accompagnati da una colonna sonora di alto livello. Gli si può giusto criticare qualche controllo a volte impreciso, ma ad averne di più di giochi così.
Passiamo poi a 20 Minutes Till Dawn e a Death Must Die. Questi (entrambi indipendenti persulserio) li metto assieme perché appartengono allo stesso genere: quello degli emuli di Vampire Survivor, anche se in questo caso è evidente che non ci si sia limitati a fotocopiare il lavoro di poncle e compagnia. Intanto, entrambi richiedono al giocatore di mirare attivamente; cosa che finisce per essere più rilevante nel primo dei due, basato su armi a distanza, ma anche su Death Must Die non va sottovalutata la direzione in cui tiriamo le staffilate. Quest’ultimo, attualmente in accesso anticipato, è anche quello più complesso a livelli di sistemi: mischia infatti il classico schema da “bullet hell al contrario”, con ondate di nemici sempre crescenti da sconfiggere e potenziamenti acquisiti livellando, a un sistema di loot ed equipaggiamento “alla Diablo”, fondamentale per rendere sempre più performante l’omino che sceglieremo (attualmente ce ne sono cinque, tutti con armi e peculiarità specifiche). 20 Minutes Till Dawn è più semplice, pecca di contenuti, ma si distingue per un gameplay che prende fin da subito – ridendo e scherzando ci ho passato più di venti ore – e per una scelta stilistica azzardata ma riuscita: il gioco, infatti, è tutto in scale di grigioverde, con il rosso come unico colore che risalta. Nonostante questo, per gli standard del genere riesce a essere ben leggibile. Sia 20 Minutes che Death Must Die costano davvero poco, quindi se siete appassionati di questo tipo di gioco teneteli d’occhio.
Chiudo con A Space for the Unbound di Mojiken, gioco che ha avuto uno sviluppo travagliato a causa di brutte mosse da parte dello sviluppatore ma che fortunatamente è riuscito a giungere alla sue fasi finali. Fortunatamente perché qua siamo di fronte a un’avventura narrativa davvero bellina, che secondo me fatica a ingranare nelle sue fasi iniziali – è chiaro che c’è qualcosa di strano in atto fin da subito, meno dove voglia andare a parare il gioco, e fare il galoppino avanti indietro è raramente un’esperienza divertente – ma che una volta ingranata la marcia, circa dopo il primo terzo, ti tiene davvero incollato con una storia che parla di bullismo, di accettazione di sé, di pressione sociale e delle aspettative che vengono con l’età adulta. Una storia in cui gli elementi sovrannaturali, presenti lungo tutto l’arco del gioco, non vanno a toccare il finale, che riesce nel non semplice compito di sembrare vero, plausibile (sì, Life is Strange, sto guardando proprio te).