Cinque (circa) indie di cui vi voglio parlare

Se siete arrivati a questa pagina da questo editoriale, tutto a posto. Altrimenti: sappiate che questo è un editoriale “incompleto”, abbandonato in favore di quello di cui sopra, ma che mi spiaceva lasciare lì.

cinque indie

Breve nota metodologica prima di partire con il simulatore di pesca negli abissi Dredge. I giochi sono “circa” indie perché non tutti di loro rientrano strettamente nell’etichetta indie, del cui significato si è discusso molto; diciamo che come minimo hanno tutti il “feel” da gioco indie, anche se alcuni di loro in realtà hanno un publisher. È il caso, per esempio, di Dredge, pubblicato da Team17: un gioco che ci mette nei panni di un pescatore che, a bordo della sua barchetta, compie il suo mestiere su un arcipelago sperduto e… decisamente inquietante. Non ci vorrà molto, infatti, per scoprire che forze oscure operano in questi mari, contorcendo e mutando la fauna locale. La storia è di per sé piuttosto semplice, la risoluzione a essere onesti un po’ deludente, ma il punto di forza di Dredge sta proprio nell’andare a pescare, girovagare per gli atolli, scoprire il mondo di gioco. A dispetto delle premesse, più rilassante che pauroso: riuscirebbe a giocarci anche Daniele “Alteridan”. Forse.

Tocca poi a SANABI, sviluppato da Wonder Potion e pubblicato da Neowiz, che del quintetto qui presente è senza ombra di dubbio il mio preferito: un action platform velocissimo che punta più sull’azione rapidissima che sugli schemi da pad lanciati contro il muro, un’azione che ruota tutta intorno al rampino che è allo stesso tempo strumento e arma del nostro protagonista, un soldato senza nome il cui unico pensiero in mente è la vendetta. Lo sfondo delle sue avventure è una città corporativa, una società ultracapitalistica che non si può fare a meno di ricondurre, chiaramente estremizzata, a quella che è la realtà odierna della Sud Corea (terra natia degli sviluppatori) e più in generale della società occidentale; non è un caso che uno degli executive della Mago Corporation, di cui troviamo la gigantografia in uno degli uffici, abbia dei lineamenti smaccatamente ispirati a quelli di Elon Musk. A questo si aggiunge una storia che, per quanto si riveli tutto sommato semplice una volta dipanata in pieno (ma è un difetto?) è narrata davvero magistralmente, per carità con un inglese talvolta un po’ maccheronico ma che non inficia assolutamente i momenti dal forte impatto che costellano lo svolgimento del gioco, tutti accompagnati da una colonna sonora di alto livello. Gli si può giusto criticare qualche controllo a volte impreciso, ma ad averne di più di giochi così.

Passiamo poi a 20 Minutes Till Dawn e a Death Must Die. Questi (entrambi indipendenti persulserio) li metto assieme perché appartengono allo stesso genere: quello degli emuli di Vampire Survivor, anche se in questo caso è evidente che non ci si sia limitati a fotocopiare il lavoro di poncle e compagnia. Intanto, entrambi richiedono al giocatore di mirare attivamente; cosa che finisce per essere più rilevante nel primo dei due, basato su armi a distanza, ma anche su Death Must Die non va sottovalutata la direzione in cui tiriamo le staffilate. Quest’ultimo, attualmente in accesso anticipato, è anche quello più complesso a livelli di sistemi: mischia infatti il classico schema da “bullet hell al contrario”, con ondate di nemici sempre crescenti da sconfiggere e potenziamenti acquisiti livellando, a un sistema di loot ed equipaggiamento “alla Diablo”, fondamentale per rendere sempre più performante l’omino che sceglieremo (attualmente ce ne sono cinque, tutti con armi e peculiarità specifiche). 20 Minutes Till Dawn è più semplice, pecca di contenuti, ma si distingue per un gameplay che prende fin da subito – ridendo e scherzando ci ho passato più di venti ore – e per una scelta stilistica azzardata ma riuscita: il gioco, infatti, è tutto in scale di grigioverde, con il rosso come unico colore che risalta. Nonostante questo, per gli standard del genere riesce a essere ben leggibile. Sia 20 Minutes che Death Must Die costano davvero poco, quindi se siete appassionati di questo tipo di gioco teneteli d’occhio.

Chiudo con A Space for the Unbound di Mojiken, gioco che ha avuto uno sviluppo travagliato a causa di brutte mosse da parte dello sviluppatore ma che fortunatamente è riuscito a giungere alla sue fasi finali. Fortunatamente perché qua siamo di fronte a un’avventura narrativa davvero bellina, che secondo me fatica a ingranare nelle sue fasi iniziali – è chiaro che c’è qualcosa di strano in atto fin da subito, meno dove voglia andare a parare il gioco, e fare il galoppino avanti indietro è raramente un’esperienza divertente – ma che una volta ingranata la marcia, circa dopo il primo terzo, ti tiene davvero incollato con una storia che parla di bullismo, di accettazione di sé, di pressione sociale e delle aspettative che vengono con l’età adulta. Una storia in cui gli elementi sovrannaturali, presenti lungo tutto l’arco del gioco, non vanno a toccare il finale, che riesce nel non semplice compito di sembrare vero, plausibile (sì, Life is Strange, sto guardando proprio te).

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