Gaming e sessismo

Uno studio sostiene che chi si identifica come ‘gamer‘ sia più facilmente incline a comportamenti estremi ed eccessivi dando sfogo a razzismo e sessismo, oltre che a difendere in modo jihadista la comunità giocante. I giocatori rispondono allo studio difendendo in modo razzista, sessista e jihadista la comunità giocante. Tutto normale?

gaming sessismoIl problema fondamentalmente è questo: letta una headline che ci fa salire il sangue alla testa non siamo in grado di dare delle risposte che la smentiscano. Ci fermiamo al titolo – peggio ancora, ci fermiamo alla rabbia che proviamo per colpa di quel titolo, al punto che tutto quello che è potenzialmente un attacco ai videogiochi diventa qualcosa da combattere. Leggi di uno studio che parla di come chi si identifica come gamer sia più incline ad una serie di comportamenti tossici e invece di applicare il tuo vissuto a questa informazione la interpreti come l’ennesimo caso in cui i mass media dicono che i videogiochi abbruttiscono la persona, l’ultima di una lunga serie di caccia alle streghe partita con DOOM e Mortal Kombat e culminata col Senatore Cangini.

letta una headline che ci fa salire il sangue alla testa non siamo in grado di dare delle risposte che la smentiscano

Sembra quasi analfabetismo. Non solo funzionale, perché non ci limitiamo all’incapacità di mettere in relazione “la strana tecnica per scoprire la data di uscita di God of War Ragnarok” (cioè mandare foto del proprio membro ad Estelle Tigani di Santa Monica) col sessismo sistemico all’interno del circo dei videogiochi. Pare quasi un vero e proprio analfabetismo, dicevo, perché lo studio di videogiochi non parla. Parla di persone, di quelle persone che si identificano come videogiocatori e di come tra di loro si nasconda e poi si manifesti il peggio che l’umanità può offrire.

Che ci sia un problema di sessismo nei videogiochi è assodato. Si potrebbero citare un’infinità di casi da affiancare a quello di Estelle Tigani. Rimanendo sempre in Santa Monica, un paio di anni fa Alanah Pearce entrava nel team come junior writer. Il tenore dei commenti sui social e nelle varie community spaziava dalle battutacce da frat boy culture in piena regola – del tipo “chissà a chi l’avrà data” e “ecco perché Cory Barlog non sta dirigendo Ragnarok” ­– fino ad illazioni sulla professionalità di Pearce, etichettata come una “personaggia di Internet” assunta solo per il marketing e non per le sue competenze nonostante quello di scrivere i videogiochi sia il suo lavoro. All’annuncio del rinvio del gioco si è addirittura arrivati ad addossarle la colpa, con conseguente altro giro di molestie a mezzo Internet.

All’annuncio del rinvio del gioco si è addirittura arrivati ad addossare la colpa alla povera Alanah Pearce, con conseguente altro giro di molestie a mezzo Internet

Un comportamento cui ormai l’ex giornalista di IGN è purtroppo avvezza, tanto da difendersi dalle minacce di stupro che riceve sul messenger di Facebook contattando le mamme dei giocatori. C’è anche chi per aver ricevuto ritorsioni del genere ha perso il posto di lavoro. Sempre nel 2020 Isadora Basile veniva allontanata dal suo ruolo di presentatrice sul canale ufficiale di Xbox in Brasile a seguito di una serie di minacce di morte – e immancabilmente anche di stupro – ricevute sempre tramite social. Situazione delicatissima, visto che si parla del Paese dell’area latino-americana col più alto tasso di linciaggi in assoluto. Questi sono solo alcuni dei sintomi più mediatici di una metastasi più diffusa. Uno studio commissionato da Lenovo a Reach3 Insights ha rivelato che il 59% delle videogiocatrici nasconde il proprio genere quando gioca per evitare conflitti e molestie. Di più, il 77% delle intervistate ha espresso frustrazione a diversi livelli per il trattamento che riceve dall’altro sesso all’interno della community. Giudizi sulle loro capacità, gatekeeping, commenti paternalistici fino a richieste di relazioni sentimentali non desiderate. A questo punto non è più una questione di vero o non vero, è una questione di chiedersi perché. E il perché va ricercato in come i videogiochi vengono raccontati dall’industria stessa.

gaming sessismo

Lo sapevi che all’annuncio di Final Fantasy 7 Remake c’è stata una polemica perché Square Enix ha ridotto il seno di Tifa? Però tranquilli, Nomura lasciamolo pure a piede libero…

Com’è l’ambiente di lavoro medio all’interno dell’industria? Ricollegandoci al concetto di frat boy culture evocato prima, qualche mese fa Activision-Blizzard è stata messa sotto inchiesta dal California Department of Fair Employment and Housing proprio per l’atteggiamento dei suoi dipendenti. Valigie riempite di dildo durante le trasferte, latte materno rubato dal frigorifero e foto dei genitali inviate nelle chat di lavoro. Il simbolo di tutto quello che c’è di sbagliato sul tema in Activision è la famigerata Cosby Suite dell’ex designer di World of Warcraft Alex Afrasiabi. Prima dell’azienda americana succedeva qualcosa di molto simile in Ubisoft, in una sorta di #metoo a sfondo videoludico che ha portato la casa francese a far fuori diversi dei suoi executive per via di atteggiamenti sessisti e razzisti sul posto di lavoro.

Basterebbe evocare lo spettro del Gamergate per dimostrare questo legame, ma parlare di spettro sarebbe improprio.

Più indietro ancora accadeva che il game writer Chris Avellone veniva accusato degli stessi comportamenti, in una battaglia mediatica culminata poi con un lungo post pubblicato sul suo profilo Medium. Post che a prescindere dalla veridicità o meno delle accuse mosse ad Avellone è una lettura molto interessante dal punto di vista politico, visti i diversi riferimenti alla cosiddetta Cancel Culture. Quella della Cancel Culture è innegabilmente una narrativa di alt-right, e Chris Avellone non è di certo il primo addetto ai lavori ad utilizzarla. Greg Ellis, la voce di Cullen in Dragon Age, per esempio nel dicembre del 2020 decideva di utilizzare proprio Cullen per difendere in un monologo di 40 minuti Ellis stesso da un presunto tentativo di Cancel Culture per via delle sue posizioni politiche – nello stesso monologo, per esempio, Ellis sostiene che “Black Lives Matter, ma non più delle altre vite”, travisando il senso del movimento. Di nuovo, questi non sono che due esempi di una relazione di lunga data tra le destre alternative e i videogiochi.

Basterebbe evocare lo spettro del Gamergate per dimostrare questo legame, ma parlare di spettro sarebbe improprio. Il Gamergate è ancora vivo, come ha ben dimostrato l’estate del 2019 a ridosso dell’uscita di The Last of Us parte II, con una vera e propria campagna d’odio nei confronti del gioco accusato di essere “troppo liberale” per via delle tematiche affrontate in-game. Notizie false, leak contraffatti, fantasiose comparative in cui si accusava Naughty Dog di aver reso Joel fisicamente più debole con un preciso intento propagandistico.

The Last of Us Parte II ha come tema fondante quello della necessità di spezzare il ciclo di odio che noi esseri umani non facciamo che reiterare

Il sito One Angry Gamer aveva addirittura pubblicato una lista di nemici dell’America in cui capeggiava il nome di Neil Druckmann. E qui è inevitabile ritornare all’analfabetismo, visto che The Last of Us Parte II ha come tema fondante quello della necessità di spezzare il ciclo di odio che noi esseri umani non facciamo che reiterare. Circolo d’odio a cui non sfuggono nemmeno i personaggi dei videogiochi, vista la tempesta abbattutasi contro Ellie e Abby, ma anche quanto fatto nei confronti del personaggio di Aloy della serie Horizon, da sempre considerato uno schiaffo in faccia ai “cari vecchi videogiochi” da una certa frangia di giocatori perché non incarnerebbe il prototipo di femmina da videoludo. Dalla wave di meme su quanto fosse ingrassata in Forbidden West fino alla Face Rework Mod che elimina la peluria facciale e le imperfezioni del volto nella versione PC rendendola più vicina all’idea di donna che i videogiochi da sempre ci hanno abituato a vedere, poco male se poi questo travia irrimediabilmente il messaggio che Guerrilla voleva trasmettere.

Aloy dopo essere andata dagli estetisti di Nexus Mod. Più “perfetta” forse, ma sicuramente meno plausibile. E quindi meno Aloy.

Insomma, alla luce di tutto questo davvero ci stupisce che uno studio dica che chi si identifica come videogiocatore è statisticamente più incline alla tossicità? Prova a pensare banalmente al tuo vissuto. Ai commenti che leggi nei vari gruppi e sui vari siti, magari anche a quelli che fai tu in prima persona.

davvero ci stupisce che uno studio dica che chi si identifica come videogiocatore è statisticamente più incline alla tossicità?

Prova a pensare a uno qualunque dei casi accennati qui sopra, a quale è stata la risposta media del pubblico – e anche a come il caso è stato raccontato qui alle nostre latitudini, dove la stampa di settore è meno sensibilizzata a questi argomenti. Prova soprattutto a pensare che il primo passo sulla strada per risolvere un problema è ammettere che esiste. E che per quanto suoni retorico quella strada possiamo percorrerla solo se siamo tutti insieme: come potremmo difenderci da soli da chi ha deciso di combattere questa Jihad dalla parte sbagliata?

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