Già allo scorso confronto con Prey, di cui trovare qui l’hands-on, sono arrivato con un background di conoscenze che superavano ampiamente le nozioni trasmesse dalla demo, circa un’ora di gioco collocata all’inizio della vicenda. Ciò non di meno, lo stile dell’incipit mi ha fatto scomodare il nome di System Shock senza nemmeno paura di esagerare, rapito da una struttura che riprende dalla storia degli action adventure in prima persona i dettagli per una rappresentazione ancora più densa – ad esempio da Half-Life – ma per il resto ci immerge nella libertà e nei concetti tanto cari a Looking Glass, dichiaratissimo punto focale per la storia creativa del team.
Ho anche già avuto modo di sottolineare come, già dai primissimi minuti, si senta la mano di Chris Avellone nel creare suggestioni quasi ipnotiche, mischiate al tenore simulativo così caro a Raphael Colantonio; la stessa rivelazione dell’incipit, che sarebbe quasi sadico descrivere di nuovo, si apre quasi subito a tutta una serie di dubbi e possibilità altrettanto intriganti, ad esempio sulla precisa identità di Morgan, sul ruolo del suo “backup” che ci aiuta in remoto, January, o anche sul significato delle melliflue parole di Alex Yu, fratello del protagonista, prima e dopo il “risveglio” (definizione riduttiva, ma tant’è) su Talos I. Tali suggestioni sono proseguite fluidamente nella prova di qualche giorno fa, negli studi londinesi di Bethesda, e allo stesso tempo si sono irrobustite con la pratica di un’esperienza ludica sempre più sfaccettata, in cui level design, possibilità d’azione e trama sembrano mescolarsi con vera poesia. La poesia antichissima della presenza aliena nello spazio, insieme a tutto quel che serve per onorarla.
Presto galleggerò nello spazio, così gonfio di materiale genetico alieno che nemmeno mia madre saprà riconoscermi.
Tutto questo porta a una nuova declinazione di quanto visto con Cybermoduli, Biomod, Praxis, Plasmidi, poteri del “Marchio” (Dishonored, insomma) o con qualsiasi altro elemento gemmato dal modello di System Shock: l’uso dei Neuromod porta a un dilemma morale intorno alla propria natura di essere umano, come in molti degli esempi citati, oppure a dover scegliere la quantità effettiva di poteri a nostra disposizione; in questo caso, però, la questione si amplia nella consapevolezza che un approccio stealth, pur se sempre perseguibile, potrebbe essere più complicato per un personaggio pesantemente ibridato con gli alieni.
Ho poi iniziato a sfruttare il Cannone GLOO per costruirmi passaggi verso i piani superiori, oltre che per rallentare l’incedere dei Typhoon, e ho avuto un ottimo feeling anche con il primo potere distruttivo che sono riuscito a sbloccare fra i rami abilità, una sorta di onda energetica derivata da una varietà aliena. Gli effetti appaiono potenti ma mai definitivi sui nemici, nella forma di una lenta “projectile weapon” che viene prontamente ripagata con la stessa moneta dagli Spettri, e può produrre danni diretti anche sull’utilizzatore. Pure qui la coerenza della messa in scena è massima, e si intreccia inestricabilmente con l’approccio ludico: stiamo usando dispositivi sperimentali dagli effetti ignoti (o almeno, Morgan non riesce a ricordarli), e il tentativo di Arkane è di farci vivere la condizione fino al cuore del gameplay, in tutti i modi che abbiamo già visto e, dall’aria che tira su Talos I, anche con qualcosa di più estremo.
Level design, possibilità d’azione e trama sembrano mescolarsi con vera poesia, rincorrendo la potente ispirazione fantascientifica
L’unico dubbio che mi rimane su quanto visto, forse, riguarda la comunicazione estremamente chiara dei tanti elementi di base, peraltro con tocchi grafici e narrativi sempre di pregio; l’atmosfera di mistero potrebbe risultare ancora più fitta, insomma, ma non c’è dubbio che il fascino dell’esplorazione e persino lo stile grafico, mai banale e dettagliatissimo nelle descrizioni d’ambiente (impossibile non pensare nuovamente ad Half-Life, ma è un bene), siano in grado di travalicare il linguaggio a prova di distratto con la pura potenza dell’immersione in soggettiva, ben studiata nell’HUD (icone dinamiche e raffinatamente leggere) per far esplodere lo sfarzo della struttura orbitante. E c’è ancora quella maledetta sezione a cui desidero fortissimamente accedere, con la dicitura “esterno di Talos I”, che sembra messa lì per chiamarmi come le sirene di Ulisse. Presto galleggerò nello spazio, così gonfio di materiale genetico alieno che nemmeno mia madre saprà riconoscermi.