Dopo il tiepido assaggio dell’anno scorso, Days Gone è tornato in maniera più convinta e convincente, tracciando definitivamente il suo identikit. Il titolo di SIE Bend Studio (software house che ha dato i natali a Syphon Filter e si è occupata anche del buon Uncharted: Golden Abyss su PS Vita) è un open world post apocalittico abbastanza vario, non votato alla sola azione trita-zombie, quanto piuttosto a un complesso ecosistema di attività da fare, che spaziano dall’esplorazione al crafting, passando per un approccio ragionato ai conflitti. Insomma, se la massa di zombie aveva dominato la prima apparizione del titolo, a un anno di distanza la massa inquietante di “freaker” (nome degli infetti) esiste ancora, ma diventa parte di un universo ben più complesso. In una delle salette private di Sony ho potuto assistere a una presentazione interessante, se non altro perché invece della solita gameplay extended della conferenza Sony ho avuto modo di guardare sì la stessa missione, ma in condizioni ampiamente differenti.
HORIZON ZERO GONE: ZOMBIE OF US
È stato impossibile, mentre guardavo giocare Days Gone, non pensare alla sostanziale familiarità di ciò che vedevo su schermo. Mi è bastato veramente poco per collegare la sensazione a qualcosa di concreto: interfaccia e modello esplorativo del titolo dello studio dell’Oregon ricordano da vicino Horizon Zero Dawn, e lo si vede da come Deacon St. John si avvicina quatto alle sporgenze, osserva l’ambiente, scopre o piazza le trappole, o ancora come crafta le cose. Il modello di raccolta delle risorse e la costruzione “one button” di elementi di consumo alla bisogna, anche durante il combattimento, sono elementi evidentemente ripresi dal titolo di Guerrilla Games, così come una generale concezione dell’open world. A guardare ancora meglio, in Days Gone ci sono riferimenti a diverse produzioni first party di Sony, e in particolare le affinità elettive con Uncharted e The Last of Us sono evidenti nel modello degli scontri e nelle scelte registiche.
le affinità elettive con Uncharted e The Last of Us sono evidenti nel modello degli scontri e nelle scelte registiche
APOCALISSE DI SPESSORE
Prima di tutto, l’America ritratta dal team è proprio quella della zona originaria dello studio, il Nord Ovest del Pacifico (soltanto devastata dalla carestia e a due anni dall’epidemia di un virus che ha reso parte della popolazione simpaticamente zombie), e oltre a essere un’ambientazione suggestiva, rappresenta anche uno scenario assai vivo, grazie al ciclo giorno notte e alla variabilità delle condizioni atmosferiche. Al di là della bellezza estetica dei tramonti, il tempo cangiante ha una precisa influenza sul gioco: affrontare la stessa missione di giorno o di notte, con il sole o con la pioggia, vuol dire trovare condizioni differenti di visibilità, ma anche un diverso comportamento da parte dei nemici umani e degli stessi freaker. Proprio il cambio dello scenario ha modificato il corso degli eventi della missione vista nella demo, con Deacon che non ha potuto più contare sull’effetto sorpresa dell’orda, a favore di un approccio più ragionato al campo di razziatori. La necessità di indagare e di studiare l’accampamento, magari liberando alcuni freaker ad hoc per creare scompiglio o aizzare i brutti ceffi l’uno contro l’altro, hanno mostrato un lato stealth di Days Gone quasi preponderante, come se il gioco suggerisse un simile approccio alle missioni. Anche in questo caso le affinità con Horizon sono evidenti: l’idea di vivere costantemente di caccia in un mondo ostile accomuna Deacon ad Aloy, e la maggiore cura delle fasi di esplorazione e di pianificazione rispetto a quelle di shooting mi pare evidente, per quanto l’uso della telecamera a-là Uncharted durante gli scontri mi ha comunque convinto abbastanza sulla bontà del gunplay.
Days Gone è un titolo bello violento, oltre che molto fisico, e non si fa problemi a mostrare sangue e morti cruente