Ho giocato ancora troppo poco a Kingdom Come: Deliverance per sapere quanto le sue imperfezioni e i suoi problemi possano pesare sulla mia esperienza (anche se al momento mi trovo molto in sintonia con quanto detto da Mario), eppure il gioco di Warhorse ha da subito un merito incredibile, ovvero ci ricorda in ogni momento quanto dannatamente sia bello giocare a fare le cose. Mi spiego meglio: nella sua rappresentazione della vita medievale, simulativa o meno che sia (perché non è tanto questo il punto), Kingdom Come: Deliverance ci consegna una miriade di cose da fare che danno soddisfazione e che ci fanno sentire parte del mondo descritto, nonché protagonisti della storia.
Proprio l’altro giorno parlavo con un amico di quanto la dimensione tattile del videogioco, intesa proprio la soddisfazione che ti dà il dispositivo di input dopo che effettui qualcosa, sia spesso e volentieri sottovalutata o comunque pensata fin troppo spesso in maniera convenzionale. Anzi, spesso e volentieri si cerca anche di semplificare quel tipo di interazione, in favore di esperienze che puntano su altri fattori, cosa che non sempre si rivela vincente. Giochi come Kingdom Come: Deliverance, invece, riportano la centralità sulla manualità dell’azione, ed è un modo molto radicale di interpretare il videogioco.
Sia chiaro, non ne sto facendo una questione di genere, di visuale in prima persona o di tipologia di prodotto, perché è un discorso che mi sono trovato a fare per situazioni e giochi diversi, e mi vengono in mente l’altalena di What Remains of Edith Finch, la scena del nodo alla cravatta di Heavy Rain, e per citare qualcosa di nuovissimo, succede anche in Florence, una visual novel interattiva disponibile per iOS, di cui vi parlerò prossimamente, dove alcune interazioni sono davvero sublimi nella loro semplicità. In sintesi, credo che i game designer che ci “obbligano” a vivere situazioni mondane, piccole, quotidiane, e che diano loro un peso all’interno del gameplay, riuscendo a dare a questi gesti un’importanza assoluta e centrale nell’esperienza, siano quelli in grado di sfruttare in maniera davvero significativa il linguaggio proprio dei videogiochi.
I game designer che riesco a dare un’importanza assoluta ai gesti mondani sfruttano in maniera significativa il linguaggio dei videogiochi
Per continuare la metafora con le tecniche di racconto, la dimensione evocata da Vávra è quasi una traduzione dello show don’t tell letterario, quello per cui uno scrittore non dovrebbe mai descrivere un’azione con un spiegone, ma raccontarla attraverso i movimenti, i pensieri e il linguaggio del corpo dei personaggi. In questo caso si potrebbe quasi pensare a un play don’t tell, perché alla fine è “sentire” il gioco quello che ci interessa. Poi possiamo discutere delle imperfezioni, delle incoerenze, dei bug e finanche della scrittura, perché un videogioco è un sistema complesso e tutto conta. Eppure, non riesco a non pensare che l’imperfezione e gli aspetti più grezzi di Kingdom Come: Deliverance siano benedetti, perché figli di un tentativo genuino, sincero e anche tutto sommato riuscito di creare un’esperienza di embodiment totalizzante, una sorta di realtà virtuale percepibile anche senza visore. Per questo motivo, a prescindere dal fatto che possa legittimamente piacere o meno come titolo, il milione di copie vendute dovrebbe farci sorridere, perché è un grande traguardo per tutti e un messaggio molto rassicurante per il futuro.