Le soluzioni più o meno standardizzate per la morte dell’avatar rappresentano un tema antico, ed è facile di perdersi in approfondimenti prima e dopo la nascita dei videogiochi. Di questi tempi la mia attenzione è rivolta al prossimo, vero annuncio di From Software, e così al ruolo che il presidente Hidetaka Miyazaki ha voluto ritagliarsi nella nuova produzione, o anche al modo in cui verranno declinate le sconfitte del protagonista in Death Stranding di Hideo Kojima; ciò, tuttavia, non impedisce al mio cervello di far riaffiorare vecchie memorie, arrivate prima delle catalogazioni dei motori di ricerca e, più in generale, della spontanea enciclopedizzazione dell’era telematica.
Mi vengono in mente, ad esempio, le relazioni evidenziate da taluni fra la reincarnazione del Buddhismo (o “rinascita”, termine forse più appropriato nel caso specifico) e il significato psicologico dei respawn per i giocatori giapponesi, oppure, in occidente, i veri e propri drammi esistenziali affrontati dai fruitori più sensibili e accaniti di Dungeons & Dragons (parlo del GdR cartaceo, naturalmente) nel momento della dipartita del personaggio, con casi di pesante depressione e conseguenze ancora più drammatiche. Fatto sta che la morte del PG è diventata parte del linguaggio stesso dei generi videoludici, attraverso la pura immedesimazione e l’importanza che l’utente attribuisce alla propria vita virtuale; impegno e attenzione durante le sessioni di gioco possono dipendere da questo, e certo si tratta di una delle prime linee di demarcazione che hanno distinto le esperienze arcade – ad esempio quelle prolificate nelle sale giochi – da regole e canoni nati nell’intrattenimento elettronico casalingo. Non più tre vite, ma una serie di ritorni infiniti. Non più tre vite, ma una sola.
Di questi tempi la mia attenzione è rivolta al prossimo, vero annuncio di From Software, e a come verrà declinato il ritorno in partita del giocatore sconfitto
In queste ore sto preparando la recensione di Everspace per PS4, dopo essermi goduto la sua genesi su PC (qui la prova definitiva), e anche in quel caso non riesco a essere del tutto sicuro che, in un mondo senza Souls, il peculiare ibrido spaziale di Rockfish avrebbe potuto esordire così sicuro del fatto suo, cosciente di trovare una selva di giocatori pronti a ad accoglierne la difficoltà e il continuo ritorno al punto di partenza. Personalmente, ho avuto la fortuna di ascoltare dal vivo la risposta di Miyazaki a chi gli domandava dell’elevato “dolore” imposto ai giocatori: per il creatore dei Souls non c’è mai stato nulla di eccessivamente cattivo nel design delle sue opere più celebri, a lato dell’obbligo di prendere sul serio e far propria una struttura complessa, profondamente interpretabile e piena di dettagli giocabili. Dopo anni di oblio, aggiungerei personalmente, e si è solo trattato di ritornare a confrontarsi con i giocatori in una forma più rispettosa, senza continuare a imporre la famigerata “accessibilità” come faro del gaming moderno.
Dopo quasi due lustri di oblio, si è solo trattato di ritornare a confrontarsi con i giocatori in una forma più rispettosa, attraverso roguelike, emuli dei Souls e innalzamento della difficoltà media nei videogiochi