Ho sempre provato un amore incommensurabile verso quei giochi che riescono a catapultarmi nello spazio profondo, che si tratti di strategici o di titoli prettamente simulativi. Ebbene, nel “lontano” 2012 Subset Games, una piccola casa di produzione nata a Shanghai da Justin Ma e Matthew Davis (entrambi già impiegati in 2K China) fece un vero e proprio miracolo, portando sui nostri schermi Faster Than Light e costringendo quindi il sottoscritto (e altre decine di migliaia di appassionati) a rinchiudersi davanti allo schermo con lo scopo di portare una piccola astronave da una parte all’altra della galassia. Le meccaniche strizzavano l’occhio ai roguelike, con tanto di permadeath ed eventi casuali più o meno punitivi: a difficoltà normale risultava tutt’altro che facile sopravvivere a quella folle fuga verso i confini dell’universo; il monte ore di divertimento era prossimo all’infinito, a patto di accettare una sicura scomunica all’ennesimo game over prematuro. Con un titolo che è riuscito a raccogliere duecentomila dollari su Kickstarter alla luce dei soli diecimila richiesti dagli sviluppatori – e che nel corso degli anni ha subito diverse patch che, oltre a migliorarne il gameplay, hanno approfondito la storia e i personaggi grazie alla penna di Chris Avellone – era più che normale avere altissime aspettative dalla nuova opera di Subset Games. Ebbene, Into the Breach non solo non delude per niente, ma veste una qualità per cui non posso fare altro che alzarmi in piedi e applaudire commosso.
BLATTE SPAZIALI
In un futuro non troppo lontano, il nostro amato pianeta è ormai giunto al tramonto: insetti giganti, chiamati Vek, hanno conquistato gran parte della Terra, e le poche isole rimaste abitabili dopo il massivo scioglimento dei ghiacci polari sono governate da aziende che, per difendere i cittadini e le poche fonti di energia rimaste, possono soltanto fare affidamento su un piccolo manipolo di mech da combattimento specializzati nella “disinfestazione” in larga scala. La difesa delle strutture pubbliche, che tra l’altro forniscono energia alle nostre macchine da combattimento, è spesso la priorità di qualsiasi missione, e veder crollare qualche palazzo di troppo non fa altro che portarci verso un inevitabile game over, e con esso… un nuova operazione di difesa. In Into the Breach, difatti, non esiste un vero e proprio concetto di sconfitta, quanto più una costante crescita sia del giocatore e della sua concezione delle meccaniche di gioco, sia della propria squadra di robottoni, che potrà vantare – partita dopo partita – di nuovi mezzi da combattimento. Tutto ciò, almeno a livello di gameplay, è giustificato da una speciale tecnologia che, nell’attimo esatto della sconfitta totale, teletrasporta uno dei nostri tre piloti in un’altra linea temporale, dandogli modo di tentare e ritentare per l’eternità.
ogni livello di Into the Breach è unico nel suo genere
MECH LANCIAMISSILI IN D2
Ogni volta che scegliamo con quale squadra di tre mech avventurarci (attualmente ce ne sono otto presenti, ognuna con i propri punti di forza e debolezza, e non manca la possibilità di affidarsi al caso) o che ci ritroviamo a fare i conti con gli equipaggiamenti disponibili e le risorse energetiche necessarie per utilizzarli, lo spirito di Faster Than Light si ripresenta preponderante e ci fa sentire a casa, anche se è fondamentale, per me, fare un paio di precisazioni. Se a una prima occhiata Into the Breach si presenta come un tattico a turni alla stregua di un Final Fantasy Tactics, in realtà l’opera Subset Games nasconde un cuore da vero e proprio puzzle game, in cui la parte più complicata di ogni livello consiste nel subire meno danni strutturali possibili e, al contempo, portare a termini missioni più o meno difficili al fine di guadagnare energia o punti spendibili per potenziare la propria squadra. Il motivo di tale pignoleria semantica è dovuto al fatto che, in linea di massima, nei pochi turni che caratterizzano un livello ci “limitiamo”, spesso e volentieri, a rispondere alle offese nemiche, cercando di limitare i danni e sfruttando al meglio le componenti ambientali presenti sulla mappa.
In Into the Breach non esiste un vero e proprio concetto di sconfitta
CRAVING DIGITALE
È difficile trovare un difetto a Into the Breach. Può non piacere il genere o può stare poco simpatica la componente roguelike che ci spinge a ricominciare dall’inizio una partita dopo una sfortunata serie di errori, ma non riesco a trovare sbavature che mi facciano storcere il naso. Anzi, rispetto a Faster Than Light l’esperienza è probabilmente molto meno punitiva, soprattutto per la minor quantità di eventi casuali che, innanzi agli occhi di chi mastica pochi roguelike, potrebbero apparire fin troppo determinanti per portarsi a casa la vittoria. Così, alla guida di un trio di Mech, è possibile raggiungere i titoli di coda “accontentandosi” di aver terminato il livello finale dopo appena due isole su quattro completate, ma tranquilli: il punteggio e le medaglie inerenti alla vittoria non mentono. E, soprattutto, quando si ha a che fare con infinite linee temporali da difendere, è impossibile fermarsi a una singola vittoria. L’unico rimpianto è non poter godere di tale meraviglia su dispositivi portatili, che siano tablet, cellulari o Nintendo Switch: la sua anima da “una partita e via” si sposerebbe bene con gli aggeggi sopracitati.
Into the Breach riconferma Subset Games come veri e propri geni del concetto di “una partita e via”, garantendo – sconfitta dopo sconfitta – un’ottima crescita personale sia del giocatore, che imparerà a rispondere al meglio alle minacce nemiche, sia delle proprie armate robotiche che, con pazienza e dedizione, diventeranno liberamente giocabili. Non fatevi spaventare dai primi game over: siamo davanti a un titolo che va assaporato con calma, gustato nel midollo e infine amato alla follia. Fatelo vostro, a meno che non odiate con tutta l’anima i puzzle game: in tal caso rischierete solo di lanciare lo schermo dalla finestra in pochi minuti.