All’alba o al reset di domani, daily o weekly quest rispunteranno come un immortale e puntuale esercito di fastidiosi foruncoli
Ci si impegna per svolgerne compulsivamente il maggior numero possibile, il tempo da dedicare al gioco diminuisce più rapidamente del conto in banca a forza di attività completate, ma quelle infami si lasciano portare a termine con la granitica consapevolezza che, qualsiasi siano i nostri sforzi oggi, loro all’alba o al reset di domani rispunteranno come un immortale e puntuale esercito di fastidiosi foruncoli, consapevoli che comunque vada noi
saremo di nuovo lì per affrontarli ancora e in eterno, ma… chi esce veramente sconfitto da questa battaglia senza fine?
Qual è il prezzo da pagare per vantare una bacheca delle sfide vuota? Per quanto mi riguarda, ho notato che a rimetterci è il divertimento. Già, proprio il motivo principe che mi spinge ad avviare un gioco.

Male, molto male,
non è questo ciò che desidero quando ho un’oretta libera da dedicare alla mia passione. So che queste parole possono suonano quantomeno bizzarre, si potrebbe pensare che se un gioco piace allora completare le daily piacerà di conseguenza. Eppure non è così, non sempre e sempre meno: nel tempo ho scoperto che qualcosa dentro di me si è rotto a forza di abituarmi a questo
diabolico meccanismo. Forse quindici anni fa mi divertivo a ripetere ogni giorno le (più o meno) stesse attività, ma
adesso avverto un malcelato fastidio in tutto ciò.
Crescendo e sperimentando, ho scoperto uno dei paradossi della mia vita da videogiocatore: andare avanti mi ha condotto indietro, in direzione di ciò che mi conquistò alla primissima partita
Crescendo e sperimentando, ho infine scoperto uno dei paradossi della mia vita da videogiocatore: andare avanti mi ha condotto indietro, esattamente in direzione di ciò che mi conquistò fin dalla
primissima partita a Mario Bros su NES. Con l’aumentare delle dimensioni del mio bagaglio d’esperienza, sono tornato quindi al
punto da cui ero partito ad inizio anni ‘90 senza nemmeno accorgermi di dove mi stavano conducendo i miei passi. Forse è per questo che da ragazzino ho amato alla follia e ancora sogno ad occhi aperti
Chrono Trigger e i suoi ventordici finali diversi: ora sento il bisogno fisiologico di un
M. Byson da mazzuolare per assistere stremato ma soddisfatto alla scena finale, uno scrigno da aprire ogni santo e maledetto giorno non potrà mai ripagarmi allo stesso modo. Forse, se siete arrivati a questo punto senza avermi nominato per un TSO,
una piccola premessa è d’obbligo per spiegare questo delirio da stress post abbuffata di daily. Non è assolutamente mia intenzione dare luogo a un’ipocrita crociata, sarebbe poco coerente dacché anche io gioco online e, come molti, mi diverto nel farlo, né denigrare un determinato stile di gioco rispetto ad un altro.
Quello che intendo è che, indubbiamente, i titoli per giocatore singolo mi hanno permesso di ricongiungermi a quel genuino piacere d’un tempo, quel sentimento primordiale che avevo un po’ smarrito senza che me ne rendessi conto, impegnato com’ero a regalarmi la mia consueta overdose di quest giornaliere. Da giocatore onnivoro e senza alcuna intolleranza digital-alimentare, amo e amerò in eterno curiosare tra gli scaffali virtuali alla ricerca di gameplay d’ogni tipo a seconda di ciò che brama in quel momento la mia anima, ma fermandomi a riflettere a forza di single player completati, mi sono ricordato che all’assuefacente tunnel delle daily c’è un’alternativa affascinante chiamata Campagna, Story Mode o in molti altri fantasiosi modi.
ci si ritrovava a immergersi soli e senza scafandro, come sognanti e solitari palombari nudi, in mondi sconosciuti che potevano tenerci prigionieri per giorni, settimane o mesi
Ci sono giorni in cui l’idea di buttarmi in qualche
competitiva scazzottata online mi solletica particolarmente, altri invece in cui l’avvolgente solitudine del single player aderisce perfettamente con le pieghe del mio umore e, in quei momenti,
la possibilità di sostituire la dipendenza dalle daily con la necessità di scoprire come va a finire una storia bellissima è una poderosa boccata d’ossigeno che profuma di libertà. In principio, quando internet era roba da film visionari, videogiocare era esattamente questo: iniziare un gioco, dannarsi la vita per finirlo, godere nel farlo e poi passare al titolo successivo quando e se si presentava l’occasione, spesso sotto forma di mancia per qualche evento, di recuperare la tanto
agognata cartuccia-cassetta-floppy. Si giocava gomito a gomito stretti in una stanza con gli amici, non in locale, ma solo quando si poteva e quando entrambe le mamme erano d’accordo, perciò non sempre e a qualsiasi ora; molto più spesso, invece, ci si ritrovava a immergersi soli e senza scafandro, come sognanti e solitari palombari nudi, in mondi sconosciuti che potevano tenerci prigionieri per giorni, settimane o mesi grazie ad una
sindrome di Stoccolma digitale che nulla avrebbe mai spezzato, era certo, se non quel fatidico
The End.

Ecco, dopo tanto girovagare tra server e produzioni d’ogni genere, i
giochi single player mi hanno aiutato a riprovare questa sensazione: l’indescrivibile fascino di sentirmi l’
unico protagonista della mia avventura e che, prima o poi, libero di seguire il sentiero da percorrere a modo mio, riuscirò a concluderla per sapere come va a finire. Perché sì, ora mi è chiaro: desidero davvero che il viaggio abbia una fine per poterne iniziare un altro, una nuova apnea in chissà quale immaginario abisso senza il
fardello delle daily-catene che mi obbligano a rituffarmi ogni giorno nella stessa, stagnante pozzanghera già esplorata più volte.
Sai che noia se ogni viaggio fosse infinito?
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