L’importanza della pausa

La passione per i videogiochi matura con noi e cambia forma per adattarsi alla nostra imprevedibile quotidianità

Ripensando alla mia carriera di videogamer mi rendo conto che è andata all’incirca proprio così. La scintilla scoccò dopo aver provato un GdR simil Eye of the Beholder sul vetusto calcolatore di mio zio e da lì in avanti l’incendio di passione divampò, alimentato da Street Fighter 2, Liquid Kids e ogni cabinato che incontravo nei locali in cui supplicavo di entrare usando qualsiasi scusa (andava bene anche il gelato nei giorni della merla), quindi – presumo per evitare che mi infilassi nei peggiori bar della periferia milanese in tenera età – toccò all’accoppiata NES & Super Mario Bros. portare quella stessa magia fin dentro casa mia, insieme all’abituale salto dal vicino più grande per ammirare l’incredibile spettacolo d’animazione digitale e computer grafica che era Dragon’s Lair su… Amiga? Atari? Dannata memoria difettosa.

IMPARARE è ANCHE SBAGLIARE, E AI TEMPI IO COMMISI QUELLO CHE IN RETROSPETTIVA FU UN GROSSO ERRORE

Il passaggio dagli 8-bit del NES all’eleganza in movimento dello SNES e dei 16-bit, le avvincenti sfide gomito a gomito a Micro Machines e poi le prime vere sortite nei negozi di videogiochi a caccia di perle come Chrono Trigger (obiettivo che raggiunsi alla Newel di Milano in via Mac Mahon, la mia personalissima mecca) fu un processo naturale che ancora custodisco gelosamente nel cuore, mentre lo stesso non posso dire dello sbaglio che mi perseguiterà finché avrò vita (scommisi tutte ma proprio tutte le mie fiches e le varie mance dei parenti sul SEGA Saturn anziché sulla prima mitologica Playstation, galeotta fu una fiera, la SMAU del – credo – 1995/96, dove rimasi folgorato dalla rivoluzionaria sensualità tridimensionale di Virtua Fighter e dalla avveniristica magnificenza di SEGA Rally). Non che la console SEGA mi deluse, anzi sia messo agli atti che mi regalò grandi soddisfazioni, ma sappiamo tutti com’è finita.

Non penso sia stato questo errore di valutazione a indurmi in tentazione, in fondo vissi comunque la nascita della leggenda di Sony tramite gli amici abusando della pazienza dei loro genitori, fatto sta che qualcosa cambiò. La curiosità verso quei pixel dotati di vita cresceva insieme a me e, dopo anni da consolaro più che convinto, arrivai al punto in cui sentii d’essere pronto per uscire dalla mia comfort zone e avventurarmi nell’ignoto. Il gamer che mi scalpitava dentro sferzò il timone della passione e puntò la mia prua interiore verso nuovi lidi informatici, attuando quel cambio di rotta che, un inverno di ventitré anni fa, si concretizzò nell’ufficio-officina di un tale spawnato chissà dove fra la bruma lombarda: il primo PC assemblato (un 486, mi pare), Warcraft 2, Little Big Adventure e Time Commando di Adeline Software giocati ben oltre la nausea fra i numerosi titoli dell’epoca finché, a quattordici anni circa, l’illuminazione divina sottoforma di Half Life non mi investì in pieno.

pausa

Dall’immortale capolavoro di Valve in poi fui travolto da un amore viscerale per il personal computer e per tutto ciò che potevano contenere quelle anonime scatole grigie, il passaggio dalla solida sicurezza del joypad all’impareggiabile agilità duo tastiera/mouse fu a tutti gli effetti un cambio di religione che mi cambiò l’esistenza; ancora oggi, difatti, fatico manualmente e concettualmente a destreggiarmi con gli FPS senza le mie due protesi preferite perché per me ormai questa è la via, come direbbe un Mandaloriano. Non ricordo precisamente quando ma rammento che, dopo innumerevoli imprese in solitaria o al massimo in locale quando possibile, le sconfinate frontiere che il nuovo multiplayer lasciava intravedere dietro la moderna e accessibile immediatezza delle sfide a distanza furono una ventata evolutiva che mi colpì con una potenza inaudita, giacché il brivido della competizione umana contro amici e soprattutto estranei era a quei tempi un vizio irrinunciabile che esercitava un forte fascino sullo smargiasso che ero.

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