La questione che contrappone accessibilità e difficoltà resta sempre lì, a pelo d’acqua, e si ripropone tipo peperonata in piena notte ogni volta che esce un gioco dal livello di sfida sopra la media, di quelli capaci di minare le certezze anche di giocatori navigati, seguiti da news tipo “solo l’1% ha superato il tutorial”. Chi “ormai c’ho famiglia”, chi “voglio solo spegnere il cervello”, quelli dalla bestemmia facile, senza pazienza o semplicemente senza la (rispettabilissima) voglia di farsi prendere a ceffoni da un videogioco, ma anche il contrario, i masochisti, gli studiosi del gameplay, gli “skillati” che vogliono guardare tutti dall’alto al basso; tutti nella mischia, con le proprie idee ed esigenze. E attenzione, qua non si fa la morale a nessuno, però il discorso sta diventando parecchio interessante da approfondire, oltre che polarizzato tra due fazioni ben distinte: da una parte i cultori dell’easy mode, dall’altra i puristi della visione originale e monolitica dello sviluppatore.
Ormai non si sottintende più alla sola produzione From Software, che ha decisamente rinverdito la questione, ma anche di Returnal, Sifu, passando per DiRT Rally. Intanto bisogna scindere due cose spesso confuse e mescolate, accessibilità e livello di difficoltà. Prendiamo Sifu, esempio recente; l’opera Sloclap è un modello di accessibilità, i controlli sono intuitivi, reattivi, semplici da assimilare, “rimappabili”, ha un tutorial intelligente ed è quasi del tutto privo di inconvenienti tecnici invalidanti (eccetto una telecamera occasionalmente fastidiosa). Questo è un punto di partenza fondamentale, perché mette il giocatore nella condizione di avere tutto a portata di pad, instaurando un rapporto onesto e sincero. Da questo momento nasce un’altra relazione, quella tra la difficoltà “per design” (costante inferiorità numerica, rapidità degli attacchi nemici, danni) e la capacità del giocatore di migliorare di conseguenza, applicarsi, apprendere, sempre più rapido a leggere le animazioni, a sfruttare le sfumature del combat system, anticipare la parata/schivata, fare crowd control.
LA DIFFICOLTÀ, IN ALCUNI CASI, NON È SOLO IL CRUCCIO DI UNO SVILUPPATORE MA ANCHE VOLONTÀ DI TRASMETTERE UN MESSAGGIO
Proprio l’opera che ha portato alla ribalta Hidetaka Miyazaki è invece un esempio di difficoltà legata a una scarsa (e in parte assolutamente pianificata) accessibilità iniziale, o meglio, oscurità. Un mito nato proprio attorno al non detto e al non spiegato, dove il giocatore era gettato quasi inerme in balia degli eventi, scoprendo sulla propria pelle quali fossero i pericoli di un mondo incredibilmente ostile, al quale si aggiungevano problemi tecnici e di design a volte determinanti per le sorti del giocatore. Un’opera grezza che ha trovato terreno fertile in chi era disposto al compromesso, un successo impronosticabile per certi versi, soprattutto in un momento dove l’industria aveva preso una direzione opposta, ludicamente inclusiva e tecnicamente sfavillante. E la fama crescente di From Software ha fatto arrivare le loro opere anche in mano ai meno pazienti, con mal di pancia palpabili che hanno seguito le uscite di Bloodborne, Sekiro e adesso Elden Ring. Ma allora chi ha ragione, l’autore o chi vorrebbe qualcosa di tagliato sulle proprie esigenze? Partiamo dal presupposto che bilanciare vari livelli di difficoltà non è facile e spesso ci si ritrova davanti a gameplay pasticciati, artificialmente condizionati da parametri che mancano il bersaglio, partendo da modalità “facili” semi-automatiche, mosce, prive di qualsiasi stimolo ad altre “difficili” semplicemente perché i danni nemici sono sparati a mille senza alcun bilanciamento ulteriore (vero Fire Emblem?). Una soluzione quasi perfetta in questo senso l’ha trovata Naughty Dog in The Last of Us: Part II, dove a livelli di difficoltà preimpostati se ne aggiungeva uno personalizzato, con il giocatore libero di gestire vari parametri. Io ad esempio scelsi di aumentare al massimo l’IA dei nemici ma anche di aumentare il numero di munizioni, trovando così un’esperienza assolutamente adatta alle mie esigenze e spettacolare (un mix di accessibilità e difficoltà da applausi). Una soluzione credo più o meno facilmente applicabile anche ai titoli From, inserendo magari la possibilità di alzare/abbassare i danni inflitti/subiti, ma che semplicemente Miyazaki non è interessato a inserire, perché andrebbe contro la sua visione, modificherebbe inevitabilmente le emozioni che lui vuole trasmettere attraverso un gameplay che è esso stesso racconto, e quindi immutabile. È un muro, una filosofia che respinge e che trasforma la volontà del giocatore in un fattore determinante, ma va accettata. Semplificare sarebbe come cambiare protagonista a The Last of Us a fine sviluppo senza adattare la sceneggiatura, o mettere le soluzioni agli enigmi di The Witness.
SUPER MARIO HA UN APPROCCIO PARTICOLARE, È ADATTO A TUTTE LE ETÀ, MA I LIVELLI EXTRA E LE SEZIONI ENDGAME NON SONO PER DEBOLI DI CUORE
Il punto finale è che la difficoltà percepita è spesso proporzionale al tempo e alla voglia che ognuno ha di approfondire un gioco, decisamente più che alla mera abilità, esperienza o feeling verso un determinato genere. Un problema soggettivo che spesso di vuole far passare per oggettivo. La visione dello sviluppatore, in assenza di evidenti errori di design e/o magagne tecniche resta sacra e, per esperienza, basterebbe un minimo di impegno in più per capire un’opera che al primo impatto pare invalicabile, fuori dalla nostra portata, addirittura scorretta. Il videogioco non è obbligato a venirci incontro come noi non siamo obbligati a subirlo e, in primis, acquistarlo, anche per questo è importante essere giocatori consapevoli.