In questo ultimo editoriale dell’anno, scritto a ritmi lenti come solo nel periodo cosiddetto festivo succede (perché l’eccesso di grassi e di cibo, e il fatto che il mondo creda che tutti siano in ferie quando in realtà non è affatto così, ti scombussola e ti fa fare tardi la notte perché tanto “dai ci sono le feste vediamoci!”), volevo partire da una notizia tragica, per meravigliarmi un po’ di quanta bellezza finiamo inevitabilmente per perderci per inseguire il mercato. No, non è una critica, è un dato di fatto, nella misura in cui è una sorta di circolo contemporaneamente vizioso e virtuoso: la ricerca del nuovo è necessaria tanto come la riflessione sul vecchio, per cui semplicemente c’è chi fa più una cosa che l’altra, perdendosi necessariamente una parte del divertimento, ma d’altronde le giornate sono fatte di 24 ore e tutte quelle robe lì che si dicono per giustificarsi con se stessi del fatto che la lista di cose che uno vorrebbe fare è sempre tipo il triplo di quello che riesci.
Detto ciò, la notizia è, purtroppo, la tragica scomparsa di Carrie Fisher, la principessa Leia che tutti noi appassionati di Star Wars amiamo. Ecco, non voglio lanciarmi in accorati compianti (semmai un pensiero commosso oggi andrebbe alla madre Debbie Reynolds, che non ha resistito alla perdita), ma vorrei celebrare l’immortalità di un simbolo come Leia raccontandovi di quanto il testo videoludico, così poroso e aperto, riesca a sorprendere anche in casi di scottante attualità. Nel MMORPG di Bioware Star Wars: The Old Republic, sul pianeta Alderaan, quello originario della famiglia Organa, migliaia di giocatori sono andati a omaggiare il palazzo reale in memoria di Leia, e altri utenti hanno creato personaggi dalle fattezze della Principessa per commemorare la dipartita dell’attrice. C’è stata anche una petizione per avere una statua di Leia nella residenza Organa, cosa che teoricamente non è fattibile per il semplice fatto che The Old Republic è ambientato giusto migliaia di anni prima della saga principale.
Il senso di un testo videoludico non si ferma al primo incontro tra autore e utente, ma continua a vivere e produrre significati diversi
È l’ennesima dimostrazione che il messaggio di un videogioco non si ferma alla mera decodifica di quanto scritto nel codice, ma continua a vivere nell’uso che ne fanno i giocatori, e che questa cosa può produrre effetti straordinari. Mi piace ricordare il ragazzo che ha incontrato il ghost lap del padre scomparso, una famiglia che si è ritrovata intorno a Kingdom Hearts, o i veterani che utilizzano i videogiochi come elemento cardine per combattere lo stress del reinserimento nella realtà. Sono casi limite, certo, per certi versi eccezionali, ma che non sono diversi da quelli che trasformando GTA in un gioco in cui diventi un poliziotto e insegui i criminali, o regali una vita normale a Trevor con moglie e cane. Il testo videoludico è qualcosa di estremamente malleabile, sia direttamente, nella misura in cui spesso è possibile modificarlo in maniera profonda, sia indirettamente, visto che si può comunque decontestualizzarne totalmente la sua funzione originaria. Tutto questo ci insegna quanto sia l’uso di un gioco, inteso come espressione del medium, spesso, a determinarne la sua importanza, e di quanto a volte ci sfugga quanto potere sia racchiuso in un titolo e nelle sue possibili emanazioni.