Il bosco ha rappresentato per secoli un luogo di fascinazione e mitopoiesi. Non solo concentrazione di arbusti dove trova riparo una fauna selvatica copiosa (e talvolta ostile all’uomo), ma anche “antro” recondito e celato allo sguardo esterno, e pertanto produttivo di fantasie e allucinazioni collettive. La letteratura è stata fra le prime forme espressive a recepire gli stimoli che la foresta suscitava nell’immaginazione umana. La selva è horrida nell’Eneide di Virgilio, allorchè Enea comincia la sua personale “katabasi” nell’Ade, il cui ingresso si situa proprio nel mezzo di una foresta. Ma la foresta è anche “locus amoenus” dove scorre il fiume Lete, nei Campi Elisi.
Il bosco diventa, dunque, un luogo archetipico tanto del mito quanto della fiaba, e si figura come lo spazio concreto o metafisico in cui l’individuo, alternativamente, perde se stesso o trova se stesso. La letteratura romanza, in particolare, fa vasto uso della selva come topos nel percorso di crescita dell’eroe. Il cavaliere deve inoltrarsi in una foresta per superare una serie di prove e “meritare” il proprio status; nel Duecento e nel Trecento, il bosco è uno spazio reale, simbolo di perdizione e di allontanamento dai valori condivisi del tempo.
Le opere del volgare italiano sono manifeste in questo senso. In una delle novelle del Decameron, Boccaccio descrive lo smarrimento di Pietro e Agnolella in una foresta, ambiente alieno, minaccioso e disorientante. Ancor più indicativo dello spirito del tempo, è il Madrigale 54, dal Canzoniere, in cui Petrarca descrive la tentazione del poeta di seguire un amore terreno, addentrandosi in una foresta che diventa simbolo negativo di deviamento dell’uomo cristiano rispetto all’unico amore salvifico, quello verso Cristo. Da ultimo non può non citarsi, in questo essenziale excursus, uno degli incipit più celebri della letteratura di ogni tempo. Dante comincia il suo viaggio nell’aldilà della Commedia, perdendosi in una selva. “Selvaggia”, “aspra”, “forte” ma soprattutto “oscura”: una foresta che “nel pensier rinova la paura”.
SELVA OSCURA
Nel videogioco pubblicato nel 2017 e sviluppato da Acid Wizard Studio (minuscolo ensemble di creativi polacchi), la foresta recupera il proprio status di luogo minaccioso e avverso, irrimediabilmente isolato dallo spazio circostante. Il bosco di Darkwood manifesta sin da subito le proprie caratteristiche fisiche peculiari: gli alberi crescono a un ritmo incessante, riempiendo spazi che solo il giorno prima erano sgombri. Questo luogo distinto e impermeabile è contornato da un letterale muro di arbusti che hanno ostruito qualsiasi via d’uscita. Un posto dove, archetipicamente, è possibile entrare ma non uscire.
Il contesto topografico è la scenografia ideale per una vicenda spaventosa nella quale il folklore polacco si ibrida a diversi riferimenti culturali — che gli autori specificano in una FAQ, su cui torneremo. Impersoniamo un anonimo protagonista che deve lottare contro le forze primitive del bosco per recuperare la propria via di fuga e la propria memoria. Già, perché il nostro protagonista non ricorda gli eventi che hanno preceduto il momento in cui viene rinvenuto esanime dal dottore locale, e il diario che reca con sé (e che redigeremo nel corso dell’avventura) è stato privato delle pagine che potrebbero far luce sul passato. Immediatamente Darkwood ricalca l’esplorazione di un ambiente ostile e inquietante con un procedimento di riscoperta della propria persona – concetto che lo accomuna ad altri esponenti del survival horror videoludico.
Che la foresta di Darkwood sia un luogo inospitale è comunicato egregiamente sin dai più minuti elementi del sistema ludico (o meglio, dei sistemi ludici) di cui il gioco è composto. Il team polacco, anche per evidenti ristrettezze di budget, opta per una visuale top-down, inusuale per il survival horror ma, come vedremo, sapientemente efficace, e imbastisce la propria opera su una commistione unica di diversi generi ludici. La tensione è il trait d’union che lega le diverse anime di Darkwood, una tensione che origina dalla costante sensazione di precarietà e dall’insipienza di ciò che si cela dietro anche solo un singolo albero. Sentimenti che gli sviluppatori polacchi ricercano (mirabilmente) e che nemmeno per un secondo provano a smorzare. Andiamo per ordine.
Sebbene la visuale dall’alto possa, in un primo momento, esser ritenuta confliggente con una sensazione di pericolo e braccamento tipica del survival horror, bastano pochi minuti di gioco per essere di diverso avviso. Possiamo in effetti vedere dall’alto tutto ciò che circonda il nostro protagonista, ma non del tutto: il personaggio ha un “cono di visione” e solo all’interno di esso possiamo scorgere la realtà in tutta la sua definizione. Ad esempio, sebbene dall’alto il giocatore possa scorgere un abitazione vicina, è solo puntando lo sguardo (il cono) su di essa che la casa rivelerà i suoi reali dettagli. Stessi principi si applicano per gli esseri viventi, che saranno visibili solo qualora li “inquadriamo” nel nostro cono di visione. Ciò produce una serie di conseguenze, la prima delle quali è che è ben possibile che un nemico ci colga di sorpresa, magari attaccandoci in un punto cieco alle spalle o ai lati. Allo stesso tempo non ci è dato modo di sapere cosa si nasconda all’interno di un edificio se non entrandovi (o scrutando dalle fessure); e, viceversa, non possiamo sapere cosa vi sia al di fuori di un edificio (o una stanza) in cui siamo barricati.
Come detto: precarietà e insipienza. La “regola sulla visione” è solo una, e la più immediata, delle modalità con cui Darkwood ci cala nel suo contesto orrorifico. Lo stesso filone, nel solco del survival horror, seguono il sistema di combattimento e di movimento del personaggio. Quest’ultimo in particolare è un piccolo concentrato di sapienza di design. Il nostro protagonista ha una mobilità a 360 gradi, ma disgiunta dal suo cono di visione. Ciò permette al giocatore di dominare lo spazio intorno alla propria figura: ad esempio, può muoversi in avanti e al contempo guardare dietro di sé o ai lati. Questa funzionalità diventa cruciale nelle sezioni concitate di combattimento, in cui il giocatore deve padroneggiare questo sistema di movimento-visione. L’avatar cammina di default ma con la pressione di un tasto può correre; la corsa tuttavia consuma la stamina, che serve al personaggio anche per attaccare. Il giocatore, allora, deve fare micromanagement sin dal modo in cui si muove nello spazio. Essere veloci è cruciale (come sarà più chiaro a breve), ma la stamina è indispensabile, perchè potremmo imbatterci in un nemico, e soprattutto la corsa limita la nostra possibilità di osservazione: correndo, il nostro cono di visione non potrà ruotare liberamente ma sarà fisso in avanti.
Come si può immaginare, Darkwood disincentiva il combattimento diretto. Lo fa attraverso diversi espedienti (l’esiguità e la fragilità delle risorse, lo spreco di tempo, la debolezza del nostro avatar), ma è tramite lo stesso combat system che l’opera polacca comunica ancora una volta le proprie coordinate essenziali: precarietà e insipienza. Ogni arma ha il proprio moveset e ogni nemico ha le proprie caratteristiche di movimento e attacco. Il personaggio giocante, invece, è imbolsito nelle movenze: i movimenti sono macchinosi, ogni attacco ha un cooldown preciso, e la stamina è un limite molto stringente. L’impatto iniziale per il giocatore è quasi mortificante nella brutalità del combattimento.
iL NOSTRO PERSONAGGIO SI TROVA IMPREPARATO AD AFFRONTARE GLI ORRORI CHE POPOLANO LE NOTTI, E NON SOLO DAL PUNTO DI VISTA FISICO
Tutti questi elementi concorrono a giustificare la tensione costante che il videogioco comunica. Ogni sortita nella foresta durante il giorno è un piccolo viaggio nell’ignoto, una spedizione che potrebbe terminare brutalmente da un momento all’altro. Il giocatore è tenuto a soppesare diversi parametri: le proprie condizioni e quelle delle proprie armi, lo spazio rimanente nell’inventario, i pericoli che si parano dinnanzi e la necessità di rinvenire determinate risorse. E, soprattutto, il tempo. La tensione si acuisce ulteriormente quando il cono di visione vira all’arancione, perché significa che il sole sta tramontando. Di notte, l’oscurità della foresta è un pericolo mortale, e il giocatore deve rincasare nel proprio nascondiglio se vuole avere una chance di sopravvivere. Inizia il culmine di ogni tensione nel bosco di Darkwood: una notte di terrori indicibili e di suoni sconosciuti, una notte rannicchiati presso una fonte di luce, una notte di mobili ammassati alle entrate, di finestre sbarrate e porte inchiodate. Inizia una notte di assedio.
ASSEDIO
Gli assedi notturni di Darkwood sono l’esaltazione definitiva delle componenti che si sono descritte finora, nonché il culmine del fattore ansiogeno nel titolo polacco. Durante queste fasi, il giocatore, asserragliatosi nel proprio nascondiglio, deve predisporre le proprie difese al fine di sopravvivere ai pericoli — molto più vari di quelli che potete immaginare — che si presenteranno fino all’albeggiare. In questi frangenti, Darkwood mette in mostra anche un’anima da tower defence in piena sintonia con la gestione delle risorse e dell’inventario tipiche del survival e con la tensione di un horror. Superare la notte comporta un grande vantaggio (attinente la valuta del gioco), ma è soprattutto il redde rationem sulla capacità del giocatore nell’aver introiettato le regole del bosco di Darkwood, presentatosi nella sua veste più pura e spaventosa. Come è tipico di una certa tradizione est europea, l’opera polacca non scende a compromessi, è necessario che il giocatore patisca sulla sua pelle le negligenze. Una punitività che riluce qualora si giocasse Darkwood nel “modo giusto”.
È il caso che si parli di una componente cruciale del titolo di Acid Wizard Studio, strettamente attinente al tema della morte. Darkwood ha tre livelli di difficoltà. Con il più basso, a ogni game over il giocatore “rinascerà” nel nascondiglio, lasciando nel luogo della morte la metà degli oggetti presenti in inventario. Con il livello medio, nel luogo di dipartita il giocatore lascerà tutti gli oggetti presenti in inventario, e soprattutto avrà a disposizione un numero finito di “vite”: una volta esaurite, il salvataggio viene eliminato. Il livello massimo di difficoltà introduce il permadeath: una morte ed è finita. È chiaro che la tensione capace di instillare il titolo aumenti esponenzialmente all’occorrenza delle due difficoltà maggiori. Ma non (solo) per questo ho parlato di “modo giusto” di giocare Darkwood. Perchè uno degli altri generi ibridati dal titolo polacco è il rougelike.
All’avvio di una nuova partita, la conformazione della foresta di Darkwood è generata casualmente. Cambia la posizione dei luoghi cruciali per l’avanzamento della storia, del nascondiglio, si modifica l’orientamento del layout delle zone, l’ubicazione di oggetti e aree opzionali. La mappa di cui dispone il giocatore è una tela bianca: i luoghi che vedete sopra non appaiono finché non li “trovate” in prima persona, e il giocatore non è evidenziato con un indicatore. In altre parole, ogni giorno passato nel bosco è un’occasione per il giocatore di “mappare” le zone circostanti, scoprendone risorse, percorsi e luoghi utili, prima del calare delle tenebre.
OGNI PARTITA A DARKWOOD È STORIA A SÈ: LA DISLOCAZIONE DEGLI ELEMENTI SULLA MAPPA VERRÀ GENERATA CASUALMENTE, OBBLIGANDOCI A UN NUOVO VIAGGIO DI SCOPERTA E DI ESPOSIZIONE A POTENZIALI RISCHI
Randomicità degli elementi di gioco, learning by using, punitività in primo piano: sono impalcature tipiche del rougelite. Ecco le ragioni per cui la morte definitiva è il corollario perfetto di Darkwood. Amplifica le terribili sensazioni causate dal bosco, dà reale valore al fallimento, corrobora al concetto di abbattimento della difficoltà come progressivo apprendimento. Conoscenza che permetterà di scorgere, per il giocatore che via via fa “proprio” il bosco, le reali “intercessioni” che i designer hanno concesso. Darkwood non fa sconti, ma è generoso per chi è disposto ad apprenderne le regole. E a proposito di intercessioni: prenderete ad amare e bramare questa OST di “residenteviliana” memoria.
Nella seconda parte di questo speciale ci inerpicheremo per sentieri ancora più angusti, attraverso i quali raggiungeremo le espressioni più insondabili di questo “bosco orribile”: i personaggi che lo abitano e le loro storie.
Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.