Darkwood: lo smarrimento e il terrore – Parte 2

Continua la nostra analisi di Darkwood, l’inquietante horror di Acid Wizard Studio. Dopo aver passato la prima parte a parlare delle meccaniche e di come si legano all’atmosfera del gioco, ora è il caso di affrontare gli aspetti più strettamente narrativi rievocati dal “bosco orribile”.

darkwood

In ossequio all’endiadi fondante — precarietà e insipienza — se la selva degli autori polacchi è un luogo che prima di tutto comunica ludicamente la propria minaccia, a ben vedere l’indecifrabilità della horrida silva si riverbera sin nei suoi aspetti più strettamente narrativi. Il bosco di Darkwood ha la fisionomia di un mosaico i cui tasselli sono disseminati in maniera disordinata su un tavolo. Il procedimento di ricostruzione della propria identità bissa quello di riordino del disegno scomposto. Anche per esso, l’opera di Acid Wizard Studio non porta per mano il giocatore: i luoghi mostrati raccontano una storia, spesso non l’unica possibile, attraverso indizi e allusioni. I tasselli del mosaico sono lì esposti, ma l’incastro non è univoco. A complicare il processo di ripristino del disegno contribuiscono le personalità che l’anonimo Protagonista avrà modo di incontrare.

Individualità ambigue, inquietanti, disperse nella propria mente, nel proprio mondo. Questi personaggi offriranno al giocatore alternative, soluzioni a problemi, avranno richieste da esaudire (dando il via a vere e proprie side quest). Alcuni NPC avranno una rilevanza centrale nello svolgersi del main plot, spesso andando in conflitto gli uni con gli altri. Il giocatore, ancora una volta, è lasciato libero di assecondare o contrariare questi individui, di battere una strada piuttosto che un’altra, o di rifiutarle entrambe scegliendo una via terza. Può anche decidere di porre fine alla loro vita.

Darkwood

I dialoghi con i personaggi di gioco sono spesso onirici o allusivi.

l’ispirazione a Dark Souls va ben al di là di un design punitivo e dell’uso della stamina


È nel rapporto con queste personalità e le loro esigenze che, a mio parere, riluce una delle ispirazioni dei ragazzi di Acid Wizard Studio (esplicitata dagli stessi nelle FAQ): Dark Souls. Ben oltre la punitività, o una certa filosofia di design “muta”, o l’utilizzo di stamina e moveset specifici, è nella totale libertà di interpretazione nei confronti degli NPC che si annida il debito più evidente. Come nel capolavoro di From Software, gli NPC sono sibillini nel narrare il proprio background, e il dipanarsi delle loro “quest” è “assorbito” nel flusso di gioco, senza un reale quest log, senza esplicite indicazioni sul dafarsi. Il giocatore può intraprendere diverse azioni nei loro confronti, causando risultati variegati, spesso non facilmente prevedibili. Imprevedibili come i loro caratteri, tratteggiati con tonalità di grigi, disposti a mentire pur di raggiungere il proprio fine; poli di eventi alternativi per cui è difficile ragionare in termini di “soluzione giusta” e “soluzione sbagliata”. Depositari di segreti e curiosità a consumo del giocatore scrupoloso e desideroso di conoscere.

E, soprattutto, i decisori ultimi degli eventi cruciali della storia narrata. Sono le scelte prese nei loro confronti che caratterizzano la “run” e conferiscono a Darkwood un’altra sfumatura ludica: quella di gioco di ruolo. Se nel “ruolo” facciamo confluire l’importanza data alla decisione come pietra angolare di caratterizzazione della “propria esperienza di gioco”, allora Darkwood si inserisce in pieno nel filone. Tale è la rilevanza del modo di agire da parte del giocatore, che Darkwood contempla almeno due macro-paths che modificano sensibilmente la seconda parte della partita, e che a loro volta sono scomponibili in sentieri minori che si dipanano in base a scelte meno impattanti. Sotto la scorza di videogioco “duro e puro”, Darkwood cela allora un’insospettabile brama di raccontare. Acid Wizard Studio dà prova del suo multiforme talento, sostenendo con una scrittura preziosa una struttura a scelte multiple, che non dà mai la sensazione di sovrastare il giocatore, ma all’opposto si adagia sull’agency dello stesso, come un abito sartoriale. Acid Wizard riesce così in una delle sfide più impegnative per un autore videoludico: guardare alla libertà del giocatore non come a un “pericolo”, bensì come a una risorsa.

Così l’incertezza e l’ambivalenza, scaturenti da un imbocco che si incunea fra due gruppi di alberi o da una solitaria abitazione che si erge in una radura, risuonano altresì nelle parole dei personaggi che abitano questa foresta, così come caratterizzano le decisioni del giocatore. Uno smarrimento fisico che precede uno spaesamento morale; quello di un uomo, il Protagonista, che ha ancora un unico obiettivo: tornare a casa.

CASA

(ATTENZIONE: quanto segue contiene spoiler sugli eventi di gioco e sul finale!)

Dissotterrare le radici del bosco di Darkwood fa affiorare un passato torbido, in cui echi di un autoritarismo straniero (tema ricorrente nelle nazioni del blocco sovietico) si mescolano a una mitologia fantastica e grottesca, strettamente avvinta all’iconografia silvestre. I riti (dal sapore pagano) di una popolazione autoctona e isolata collimano con la natura magica, latamente divina, di uno spirito forestale che si manifesta con aberrazioni della carne e della mente. Sebbene sia stato negato esplicitamente dagli autori, si percepisce un indicibile lovecraftiano fra i meandri della foresta; la trasformazione bestiale degli abitanti sussegue l’assuefazione ai miasmi del bosco, ai prodotti della sua natura. Una distruzione mentale precede uno sconvolgimento del corpo. Quello di Darkwood è un mondo in disfacimento, corre verso la rovina. Il villaggio principale patisce la fame ora che il mostruoso maiale gigante non genera più prole; la spedizione di ricerca — di cui pare che il Protagonista faccia parte — è andata distrutta; gli abitanti della Palude sono confluiti nell’infernale sembiante di un enorme albero composto dai corpi degli stessi, e i pochi fuggiti lottano contro una follia incipiente; il Dottore è braccato dalle deformità che prima tentava di curare.

PUR IMMERSI NELLA PAZZIA, I VARI PERSONAGGI CERCANO EVASIONE E SERENITÀ

In questo miasma di sofferenza e pazzia, però, ciascuno cerca una parentesi di evasione e serenità. Anche il Dottore in fondo non vuole che tornare a casa, dalla sua figlia che non vede da anni; la lumaca gigante (una volta un uomo) desidera la libertà; gli Elefanti erigono una prigione dorata nella speranza di sfuggire ai vapori mefitici della Palude; Piotrek vuole costruire un razzo per raggiungere quella luna così luminosa rispetto al nero melmoso del bosco. E il Protagonista è mosso dalle stesse esigenze; nel mentre però il bosco diventa sempre più la sua casa. Darkwood non è esplicito a proposito (come su qualsiasi altro aspetto narrativo), ma il Protagonista stesso subisce l’influenza del bosco. È come se quel processo di dominio progressivo dell’ambiente di cui si è parlato collateralmente causasse anche un effetto opposto: il bosco ci domina sempre più, in un rapporto simbiotico.

Darkwood

Viene da chiedersi allora dove sia casa, cosa sia casa. Forse “casa” è l’accettazione del cambiamento, la capacità di non perdere la propria identità (il senno) pur all’occorrenza di una realtà che (s)travolge tutto. Il Protagonista può fuggire dal bosco in due modi. Dando alle fiamme l’enorme albero in cui sono confluite più coscienze; oppure fuggendo tramite il sottosuolo, una nuova katabasi che acquisisce i tratti di un’infernale auto-analisi. Rifiutare violentemente il cambiamento oppure interiorizzarlo con tutto il dolore che ne consegue: sembrano queste le soluzioni prospettate dall’opera polacca. Ma non si tratta in ogni caso di una fuga?

Darkwood, non senza un filo di ironia, sembra sottolineare per ciascun personaggio l’illusorietà dell’escapismo. Nell’Epilogo ci è dato modo di fuggire dal bosco e di tornare nel nostro centro abitato. Non c’è gioia né trionfalismo in questo nostos. È una sensazione straniante quella che suscita questa città: un borgo grigio, nauseante nella sua regolarità, abitato da pochissimi individui, caratterizzato da enormi ed eguali condomini di pietra. Diversi elementi scenografici rievocano i ricordi che abbiamo accumulato nel bosco (la bicicletta, la radio, il piano cottura). Sebbene siano passati diversi giorni nel bosco, tanto gli abitanti quanto il protagonista si comportano come se fossero trascorse solo poche ore di assenza: il vicino ci dà il buongiorno, sul tavolo in cucina troviamo un foglio di nostra moglie che ci avvisa che il cibo è nella pentola.

SI PUÒ DAVVERO FUGGIRE DALLA SELVA OSCURA DI DARKWOOD? O È FORSE SOLO UNA TEMPORANEA, FUGACE ILLUSIONE?

Il Protagonista prima di mettersi a letto però ricorda i giorni necessari per fuggire (quelli effettivi impiegati nella nostra run per finire il gioco); ne ricorda l’orrore, la spossatezza, la sofferenza. Forse non siamo davvero fuggiti. Forse si è trattato di un semplice allontanamento, una parentesi di quiete prima del giorno dopo, quando ci saremo svegliati e il bosco sarà ancora lì ad accoglierci. La selva di Darkwood acquisisce allora sempre più i contorni di una gabbia mentale, un riaggiornamento del mito oscuro del bosco nel solco dello spleen esistenziale, una rappresentazione dell’angoscia del vivere.

Si può leggere l’intera esperienza ludica di Darkwood come una rappresentazione febbrile e angosciosa della psiche di un uomo, sospeso fra il desiderio di evasione da una quotidianità tarpante e la consapevolezza di una fuga che non sarà mai veramente possibile. Un tormento da cui l’uomo non può separarsi. Con uno dei finali — si guardi l’immagine sopra — con un lento carrello, ci spostiamo dalla camera del nostro Protagonista alla foresta da cui siamo evasi: una strada ondulata, quasi un cordone ombelicale oppure una radice, lega simbolicamente il nostro appartamento a quel bosco. Possiamo parlare di un reale ritorno a casa, giunti a questo punto?

Una situazione senza vie d’uscita apparenti, se non quella prospettata dal finale segreto. Le apparenze si arrendono alla realtà, e il nostro Protagonista si risveglia in un luogo infernale, dove centinaia di persone dormono e sognano visioni aberranti, e dove un Essere troneggia nel mezzo. Qui possiamo decidere di dare alle fiamme tutto e tutti: compresi noi stessi. Una morte, procurata a sé e agli altri, che più che un “ritorno al nulla” sembra indicare una presa di coscienza dolorosa come le fiamme che consumano la carne, un invito a farsi carico della propria vita pur nella dannazione che questo comporta. Interrompere il sogno collettivo per scendere a patti con la realtà: forse è questa rinnovata consapevolezza il primo passo per recuperare una propria radura di serenità e accettazione.

Il bosco è infine eroso nelle fondamenta, e l’oscurità delle proprie mura lignee lascia il campo a uno spazio che permette di “riveder le stelle”. Darkwood ha aggiornato al linguaggio videoludico il mito dello smarrimento nella foresta come catarsi individuale.


Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.

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