Sui reboot e sul coraggio di creare titoli nuovi

Nell’industria dell’intrattenimento è pratica comune ammodernare i franchise più longevi, e soprattutto negli ultimi anni il numero di reboot presenti nei negozi digitali è aumentato esponenzialmente. Ma è una buona idea? Come spesso accade, la risposta non è lineare.

rebootFacciamo un gioco, caro lettore. Immaginiamo di avere questa idea di ambientare una storia in un’isola sperduta dalla pessima fama, al largo delle coste giapponesi. C’è chi dice che nemmeno esista, chi giura di sì ma non può dimostrarlo perché è circondata da tempeste e nessuno è mai tornato da lì. Immaginiamo di impersonare una superstite di un naufragio e che l’obiettivo della storia sia capire cos’è successo e portare a casa la pellaccia. Creiamo un gameplay a metà tra avvincenti scalate a base di muscoli, corda e piccone e ci infiliamo dentro un po’ di sparatorie con le coperture perché, saranno anche poco soprendenti, ma Gears of War ha davvero cambiato qualcosa per sempre. Le armi però sono arrugginite, brutte, cigolanti. Nella giungla non è certo semplice fare manutenzione, dopotutto. Immaginiamo questa esperienza in cui esploriamo tutta l’isola, trovando architetture, diari, reliquie del medioevo giapponese, delle forze militari che in tempo di guerra avevano costruito avamposti e infine degli attuali occupanti dell’isola, naufraghi sorpresi dalla tempesta a loro volta. Un totale di 3 livelli di narrazione ambientale sovrapposti. Immaginiamo infine di chiamare tutto questo Tomb Raider.

IN TOMB RAIDER 2013 LA PROTAGONISTA SI CHIAMA LARA CROFT, MA NON LA RICONOSCIAMO

Ho appena finito per la seconda volta questo gioco uscito nel 2013 e non lo trovo invecchiato per nulla. La somma delle sue parti è avvincente come allora e se ci si lascia prendere dall’atmosfera si perdona facilmente un gameplay derivativo e una narrazione che ci prova tanto a coinvolgere, ma non sempre ci riesce. Perché il primo problema è proprio questo: in Tomb Raider 2013 la protagonista si chiama Lara Croft, ma non la riconosciamo. È impacciata, inesperta, piena di sensi di colpa e riserve morali quando invece la Lara che abbiamo conosciuto per 9 capitoli è una ricca archeologa che mette gli occhi su un artefatto e va a prenderlo, punto. Non importa quanti orsi, demoni o umani abbiano da obiettare. Un personaggio grigio, moralmente non tanto distante dai suoi cinici rivali. Forse punta a mettere gli artefatti che colleziona sotto una teca anziché usarli per conquistare il mondo, ma ciò non toglie la vena fiera, ostinata e impenitente che l’ha caratterizzata sin dalla sua prima comparsa nei nevosi panorami dell’Himalaya.

Allo stesso tempo le doppie pistole con munizioni infinite hanno ceduto il posto a un arco costruito a mano e ferrivecchi che hanno visto i loro giorni migliori un paio di decenni fa. Per consistenza tra oggetti e personaggi si rende quindi appropriata un’azione più piantata a terra. Non voglio usare la parola “credibile”, sia chiaro. Tutto è ancora molto sopra le righe, ma è importante dire che Lara non fa più i salti carpiati all’indietro sparando a destra e a manca, preferendo invece rotolare da una copertura all’altra come insegna un altro audace esploratore. Le scalate infine sono sì da rispettare, eccome, ma anche qui non vi sono le eleganti acrobatiche che caratterizzavano la vecchia Lara, né l’osservazione necessaria a capire il percorso, che costituiva buona parte dell’esperienza negli originali. I combattimenti erano l’intermezzo tra una fase esplorativa e l’altra, non il contrario. Qui è tutto molto più guidato e cinematografico. Il punto a cui voglio arrivare è che se cambiamo i capelli alla protagonista e la chiamiamo, che ne so, Sara Cloth, dubito che un giocatore avrebbe mai detto “mah, questo gioco è carino, ma è uguale a Tomb Raider.”

Facciamo un altro gioco? Questa volta penserei a un action, ci stai? C’è questa città chiamata Limbo City. Inferno e Paradiso esistono così come angeli a demoni, e gli è proibito interagire gli uni con gli altri. I demoni controllano il mondo degli umani attraverso una dimensione parallela e solo alcune persone possono vederli, solo attraverso talune circostanze. Un po’ come Essi Vivono di Carpenter, però con demoni al posto degli alieni e protagonisti che sono figli di un’unione proibita, così partiamo subito con la posta in gioco alta. I protagonisti che combatteranno i demoni e sveleranno la verità a suon di spade e pistole demoniache si chiamano Dante e Vergil. Che c’è? Massì, lo vedi che questo tipo è Dante, gli mancano solo i capelli bianchi. Diamo anche una rinfrescata all’atmosfera, basta gotico. Andiamo sul punk.

Ho in mente anche un altro gioco. Prima persona, creature misteriose che possono trasformarsi in oggetti, stazione spaziale ipertecnologica con quel delizioso tocco Art Deco. C’è molta libertà di esplorazione e d’approccio, ci si può muovere sia dentro la stazione spaziale che fuori e c’è anche uno skill tree in cui puoi scegliere se aumentare le tue abilità o aumentarle ancora di più iniettandoti DNA alieno. I benefici sono evidenti, ma le conseguenze a lungo termine non sono chiare. Si chiama Prey. “Ma dov’é Tommy? Che c’entra tutto questo con invasione aliena, passeggiate su nastri gravitazionali e armi viventi?” Caro lettore, non c’entra nulla e non so perché mi stai parlando di Prey quando io sto parlando di Pre… ah, capisco. Specifico la data, stavo parlando di Prey 2017.

reboot

A questo punto devo fare un outing: a me tendenzialmente i reboot piacciono nei loro contenuti e anzi, più deragliano dall’idea originale più sono stimolato. Apprezzo la creatività e idee fresche. Ho avuto un’ottima esperienza con tutto il trio menzionato qui sopra. Il problema è che adoro quanto se non di più le loro versioni originali. E qui inizia l’insolvibile, eterno stallo che i reboot generano. Le cosiddette “fanbase frammentate”. Innanzitutto va definito che cos’è una fanbase: sono persone che hanno goduto di un’opera all’incirca negli anni della sua uscita, ne hanno parlato in live o sui forum, hanno atteso i sequel e alla loro uscita erano lì per parlarne ancora. Sono community appassionate di una saga che, al netto di ovvie e umane preferenze sui capitoli preferiti, hanno una base comune nel dire “che cosa” la saga è. Un patrimonio culturale comune dove tutti partono dalle stesse informazioni. Gli anni passano, le generazioni cambiano, a volte vengono fatti i reboot e succede puntualmente lo scisma che vede:

  • i puristi che riconoscono solo i capitoli originali;
  • i nuovi fan, aggiuntisi perché la nuova versione riesce a comunicare con loro laddove l’originale no;
  • gli eterni indecisi che apprezzano entrambi i filoni accettandone la diversa natura.

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SE SIAMO FAN DI QUALCOSA, È PERCHÉ QUEL QUALCOSA HA COMUNICATO CON NOI

Chi ha ragione? Tutti. Ho provato diverse scuole di pensiero nel leggere questo fenomeno e questa è l’unica che mi ha portato a vederlo con serenità. Nessuno è fan di una storia, film, videogioco perché glielo ha ordinato il medico. Siamo fan di qualcosa perché quel qualcosa ha comunicato con noi. Ed è quindi comprensibile il disappunto quando quel qualcosa si presenta con il nome giusto, ma stile, fisionomia e atteggiamento che a un certo punto non riconosciamo più. Le versioni originali, il cosiddetto “canon” contano perché lasciano un’eredità solida, tangibile e comune per chi approccerà queste saghe tra decenni, magari. Quando qualcuno si riferirà a Solid Snake in futuro, che sia per citazione, riferimento o per fare una battuta, non ci sarà (per il momento) alcun dubbio che stiamo parlando del Metal Gear di Hideo Kojima. Se parleremo di Jak&Daxter sapremo che ci sono stati solo quelli di Naughty Dog. Se parleremo di Oddworld, al netto di un remake comunque fatto dallo stesso autore non potremo certo confondere Abe, Munch e Stranger con qualcun altro.

Se parliamo di Tomb Raider invece, adesso dobbiamo specificare. È la Lara della generazione ps1, quella riadattata dalla trilogia Legend/Anniversary/Underworld o quella più recente? E non si tratta solo dei costumi e il taglio di capelli di un personaggio, sia chiaro. I remake sono un altro tema caldo, ma qui il punto sono quei giochi con molta luce propria che però si ritrovano addosso il nome di un’altra cosa dal passato. A volte capita anche con i sequel, come quel delizioso Lost Planet 3 e il suo mech operaio che nel corso della storia sarà veicolo, casa e fidato guerriero in supporto al protagonista. Esatto, sto implicando che non è possibile saltare fuori da un mech in esplosione, lanciare il rampino sul tetto, salire al volo, usare la torretta e poi saltare giù attaccandosi alla gamba del mech del nostro compagno. Lost Planet 3 ha il ghiaccio e i robottoni, il pianeta è quello degli originali. Ma li usa per raccontare una cosa sua. Discorso simile si può fare per Silent Hill da Homecoming in poi. Non penso siano giochi brutti in assoluto, anzi, sono uno stoico difensore persino di Shattered Memories su Wii. Ma quando mi dicono che c’entrano poco o niente con la visione artistica e narrativa originale che posso fare, abbraccio e annuisco. Sono d’accordo.

MOTIVAZIONI E SENSO DEI REBOOT

Ma quindi, se si è già al corrente che alcuni cambiamenti saranno traumatici perché farli? Se si vuole apportare così tante modifiche da cambiare quasi genere, perché non andare fino in fondo con un titolo nuovo? Perché da creativo dovrei scegliere coscientemente di dividere una fanbase? Ora, parlandoci pane a pane e vino al vino, il motivo per cui si fanno queste operazioni di ammodernamento sono evidenti: più i valori produttivi di un’industria di intrattenimento sono alti e meno si tende a prendersi rischi creativi. I videogiochi si permettono ancora di spaziare molto rispetto al cinema, ma il pensiero di fondo del reboot è uguale: questo tipo di produzione ha un plafond di fan e di discussione garantito, il primo trailer parte con la strada già battuta.

È indubbio che un reboot abbia il vantaggio di partire da una base di fan già consolidata, ma questo non significa che non offrano una sfida

Ma che cosa si dice nelle discussioni è la parte che ci interessa di più, ed è il fenomeno divisivo di cui sopra. “Ma senti, un autore non può fare quello che vuole? Saranno anche affari dei fan se il reboot non gli piace” Sì, certo, caro contrariato lettore. Chi in quel momento ha in mano la proprietà intellettuale può farci quello che vuole, così come l’utente è libero di restare o non interessarsene. Però penso che se si è generata la domanda di avere ancora contenuti della saga X, il merito è proprio di chi l’ha creata per primo e di chi l’ha premiata negli anni e anche solo in ottica di mutuo riconoscimento tra sviluppatore e fanbase farei ben attenzione a rompere la magia. Lavorare con franchise già stabiliti è anche una sfida creativa: significa avere a che fare con limiti che potrebbero non piacere, ma che è naturale ci siano, per il semplice fatto che si sta continuando un discorso iniziato da qualcun altro.

E a dirla tutta a volte un punto di bilanciamento tra omaggiare il passato e guardare al futuro succede, vedi Resident Evil 7 che torna alle origini dal punto di vista dell’atmosfera survival, con pochi nemici ben tosti, i bauli, niente negozi, ma consegna al tempo stesso la sorpresa dell’inquadratura in prima persona. O Doom 2016, che conserva alcune ispirazioni grafiche di quel Doom 3 che per primo ha lanciato la serie nel full 3D, ma che dall’altro lato la riporta alla velocità dei capostipiti, con il suo protagonista furioso e inarrestabile.

Riuscire a mantenere la vecchia fanbase e al contempo invitare la nuova è una sfida difficilissima dal lato creativo, però che soddisfazione vagare nei forum e nelle varie discussioni online e leggere commenti sul gioco, sulla soundtrack, su come battere quel maledetto nemico e non faide su cosa sia il gioco in primo luogo. Non che discussioni sull’anima di una saga siano mai mancate, sia chiaro. In ogni storia che conti più di un capitolo ci sono. I toni delle stesse però, definiscono se la fanbase è in generale contenta oppure no.

Sto rileggendo ora l’articolo e non sono sicuro che abbia un punto. Ho adorato Prey 2017 e la sua espansione Mooncrash. Sarei pronto a scambiarli per il Prey 2 originale del quale era già uscito il primo trailer? Non so rispondere a questa domanda, nessuno sa cosa ne sarebbe venuto fuori. C’è una cosa che so con certezza però, ed è che vorrei aver avuto la possibilità di giocare entrambi.


Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.

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