Elden Ring: l'open world tra meraviglia e iterazione – Parte 1

Elden Ring è un’opera mastodontica, capace di tenere impegnati e di meravigliare a più riprese per tante, tantissime ore, portando una necessaria ventata di aria fresca agli open world, evitando le “trappole” che spesso li affliggono. Ma forse non le evita proprio tutte…elden ring open world

Non è difficile, vedendo un trailer o un filmato di gameplay di Elden Ring, notare le fortissime somiglianze tra l’ultima opera di Miyazaki e i Dark Souls, che vanno dall’impostazione ludica similare fino alla chiara riproposizione di asset e moveset. Del resto non è neanche una novità, visto che sono ormai più di 10 anni che From Software si fa forza di una formula che si è rivelata vincente, rielaborandola a più riprese, pur con le dovute differenze e con una qualità media in ogni caso elevatissima. Elden Ring, d’altro canto, si presenta con una continuità ben più marcata con i Souls rispetto a titoli come Bloodborne o Sekiro, sia in termini di immaginario che di impianto di gameplay, per quanto a un’analisi più approfondita si possano riscontrare differenze non insignificanti nella filosofia alla base di certe scelte ludiche. In ogni caso l’elefante nella stanza sono chiaramente due semplici parole, portatrici tanto di speranze quanto di timori, che rappresentano il fulcro su cui From Software ha imperniato l’identità di Elden Ring: open world.

gli open world dominano sempre più il mercato delle produzioni ad alto budget

Croce e delizia delle ultime generazioni videoludiche, gli open world si sono affermati come una vera e propria moda, capace di colonizzare anche serie che fino a quel momento avevano sempre offerto esperienze contenute e lineari. Spesso criticati dai giocatori in quanto ritenuti colpevoli di una certa standardizzazione ed eccessiva ripetitività, eppure al tempo stesso in grado di ritagliarsi spazi mediatici e commerciali senza pari. The Legend of Zelda: Breath of the Wild, Red Dead Redemption 2, Death Stranding, Cyberpunk 2077, Elden Ring: se si pensa ai giochi più attesi e chiacchierati degli ultimi anni, escluse eccezioni come The Last of Us Parte II, si può notare come questi siano proprio accomunati dalla promessa di mondi vasti e di centinaia di ore di contenuti.

Pochi giochi hanno saputo trasportarmi in un mondo alternativo come Red Dead Redemption 2.

È facile capire l’attrattiva degli open world. La promessa di un vero e proprio mondo alternativo, virtuale, in cui immergersi e da esplorare liberamente è un qualcosa che non nasce certo negli ultimi anni: appartiene al mondo dei videogiochi come minimo da quando i giocatori dell’epoca si sono trovati per la prima volta ad attraversare la piana di Hyrule; ma in realtà da molto, molto prima. Il fascino dell’open world sta quindi nel senso di scoperta di un mondo nella cui esplorazione l’unico limite è la propria curiosità, in cui il giocatore sia libero di andare dove vuole e scoprire organicamente cosa nasconde ogni anfratto. “La vedi quella montagna? Puoi scalarla”, per citare la celebre frase di Todd Howard giustamente diventata fonte di meme.

Di fatto però, il paradigma più diffuso tra gli open world (quello che comunemente si definisce “modello Ubisoft”) rinnega gran parte di quanto detto. Certo, si è liberi di andare in qualsiasi direzione, ma è difficile parlare di scoperta quando ogni attività è chiaramente indicata dal gioco con una mappa disseminata di segnalini di ogni tipo, che quasi non lasciano spazio alla topografia sottostante. In questo modo il senso di scoperta è mortificato e l’esplorazione diventa prevedibile, ma soprattutto il giocatore non è portato a sviluppare un rapporto attivo con lo spazio: non si esplora guidati dalla propria curiosità, bensì si è portati a seguire passivamente le indicazioni date dal gioco. Con questo non voglio dire che tutti i giochi che seguono questo modello siano da buttare, sia chiaro, nel tranello cadono anche giochi che reputo di assoluta qualità. Prendiamo The Witcher 3: il mondo di gioco creato da CDPR è curatissimo, estremamente affascinante dal punto di vista artistico, ma il design del gioco non spinge ad assumere un ruolo attivo nella sua esplorazione, tant’è che a restare impressi a distanza di anni sono episodi specifici appartenenti a questa o quella side quest, difficilmente un’esperienza esplorativa unica e personale. Men che meno il mare di attività insulse sparse a caso sulla mappa.

Sì, ho completato tutti i punti interrogativi, come lo avete capito?

Se questo modello si è affermato c’è un motivo, o meglio due: da un lato per offrire un’esperienza esplorativa soddisfacente non basta semplicemente rimuovere gli indicatori, è necessario costruire il mondo di gioco in modo da guidare e attirare implicitamente la curiosità del giocatore (motivo per cui le modalità “no HUD” spesso non sono una vera soluzione), cosa non proprio facile; dall’altro lato quando così tante risorse (e tempo) sono state spese per realizzare un contenuto, comprensibilmente non si vuole rischiare che il grosso dei giocatori se lo perda.
Negli anni non sono mancati titoli che in un modo o nell’altro hanno provato a proporre una qualche forma di alternativa: The Legend of Zelda: Breath of the Wild, con la sua forte interazione ambientale e libertà esplorativa; Death Stranding, che trasforma l’attraversamento dello spazio in azione ludica in sé; Red Dead Redemption 2, con la sua cura maniacale nella riproduzione di un contesto immersivo e dinamico. Tornando più indietro si possono citare i Gothic, che uniscono una forta attenzione all’immersività data dall’implementazione di routine degli npc piuttosto elaborate per l’epoca, alla costruzione di un mondo di gioco contenuto ma fortemente stimolante. Insomma, ci sono tanti modi diversi per dare davvero valore a un open world. D’altro canto Elden Ring, per quanto si possano certamente individuare punti di contatto, non è del tutto accostabile a nessuno dei giochi citati: non ha l’interazione ambientale e la fisica di Zelda, né il sistema di movimento di Death Stranding, né tanto meno ha interesse a creare un contesto vivo e immersivo.

VAGANDO PER L’INTERREGNO TROVEREMO POCHE INDICAZIONI ESPLICITE: IL MODO STESSO IN CUI È STATO PROGETTATO IL GIOCO CI INVITA AD ESPLORARE E SCOPRIRE

Il mondo di Elden Ring è statico, o quanto meno si evolve solo in funzione delle azioni del giocatore stesso, in quanto il suo scopo non è di essere teatro degli eventi o contesto in cui far immergere il giocatore, ma spazio da “conquistare” attraverso l’esplorazione. In questo senso From Software ha traslato, in modo sorprendentemente riuscito, il loop di dominio dell’ambiente di Dark Souls o di un metroidvania in un contesto open world estremamente più vasto. Esplorando l’Interregno si viene molto raramente indirizzati esplicitamente, se non con la timida guida della Grazia (che comunque punta in più direzioni e molto spesso opzionali), quindi a guidare i movimenti del giocatore in ogni momento è sempre e solo la sua curiosità, il suo desiderio di scoperta.

Il mondo di gioco è costruito in modo tale da incanalare implicitamente l’attenzione del giocatore, attraverso stimoli visivi e punti di riferimento che aiutino l’orientamento. Ogni area è così distinta in modo evidente da una direzione artistica peculiare, l’Albero Madre domina il campo visivo in ogni momento dando un punto di riferimento fisso (oltre che un costante promemoria della destinazione da raggiungere), le Torri Divine presenti in ogni regione e spesso visibili dalla distanza offrono ulteriori appigli per la costruzione della propria mappa mentale. In ogni area inoltre è presente una qualche struttura, spesso il Legacy Dungeon del caso, che si staglia all’orizzonte attirando naturalmente l’attenzione: il Castello Grantempesta che torreggia su Sepolcride, l’Accademia di Raya Lucaria che spicca sulle paludi di Liurnia, la Capitale Leyndell che si erge sull’Altopiano di Altus.

Elden Ring Open World

C’è davvero bisogno di un segnalino?

Elden Ring, fidandosi della capacità del giocatore di farsi strada guidato dalla propria curiosità e dagli stimoli visivi, gli permette di riappropriarsi del suo ruolo attivo nell’esplorazione, di sviluppare quel rapporto con lo spazio e quel senso del luogo che, come argomentavo in riferimento ai metroidvania, è possibile solo quando la mancanza di informazioni esplicite costringe a ragionare sui propri passi e a dominare progressivamente lo spazio di gioco. Anche l’inserimento della mappa, che rispetto ai precedenti giochi From modifica nettamente il lavoro di mappatura mentale richiesto al giocatore, è stato gestito tenendo ben presente l’importante equilibrio tra la necessità di dare informazioni al giocatore, imprescindibile considerato il vertiginoso aumento di dimensioni del mondo di gioco, e la volontà di non impigrirlo rendendo l’esplorazione meramente meccanica.

La mappa di Elden Ring è quindi un appoggio importante per consentire al giocatore di orientarsi, piuttosto accurata dal punto di vista topografico, ma non abbastanza esplicita da permettergli di affidarvisi totalmente. Il fatto che la mappa poi vada preventivamente recuperata dagli obelischi sparsi per il mondo di gioco garantisce un ulteriore strumento con cui From Software può temporaneamente modulare il carico mentale richiesto al giocatore: l’esempio più eclatante è il Monte Gelmir, la cui mappa può essere ottenuta solo dopo aver faticosamente scalato il suddetto monte orientandosi senza il suo supporto (con tanto di burla finale quando arrivati all’obelisco si viene attaccati da una di quelle disgustose mani-ragno giganti). Una volta recuperata, a un occhio attento la mappa di ogni area offre parecchie informazioni, come la presenza di rovine, torri o miniere, ma richiede anch’essa un approccio attivo del giocatore, che deve analizzarla e non può limitarsi a cliccare su un segnalino preimpostato.

Elden Ring Open World


Questa schermata può dare molte più informazioni di quel che sembra.

Quando un open world “classico” indica esplicitamente sulla mappa le attività disponibili, sta anche implicitamente affermando che lo spazio tra un indicatore e l’altro è tendenzialmente “vuoto”, privo di attività. Va da sé, quindi, che lo spostamento tra un segnalino e l’altro diventa un’operazione meccanica, per lo più priva di coinvolgimento. Quando invece in Elden Ring il giocatore imposta autonomamente un indicatore, dopo aver attentamente osservato l’orizzonte visivo o la mappa, il raggiungimento di esso resta un processo attivo proprio perché la mancanza di informazioni esplicite spinge a tenere l’attenzione sempre alta, in quanto è sempre possibile imbattersi in qualcosa che non ci si aspetta.

In questo aiuta anche la notevole densità di contenuti: è difficile spostarsi per più di un minuto nell’Interregno senza che la propria attenzione sia catturata da qualcosa, che sia l’entrata di un dungeon secondario o una struttura sospetta in lontananza. Densità e mancanza di informazioni sono due degli ingredienti principali che compongono un’esperienza che riesce costantemente a meravigliare il giocatore, dandogli l’impressione che dietro ogni angolo possa nascondersi qualcosa di importante. L’altro ingrediente attraverso cui sorprendere il giocatore è la mole: Elden Ring è un gioco mastodontico, ma non lo mette in chiaro sin da subito. Quando si muovono i primi passi a Sepolcride l’ampiezza dell’area immediatamente visibile e la notevole densità di contenuti spingono a pensare che sì, non si è visto tutto il mondo di gioco, ma tutto sommato si presume di averne visto un bel pezzo: nulla di più sbagliato.

LE TRAPPOLE DI TELETRASPORTO CI FANNO RENDERE CONTO DELL’IMMENSITÀ DEL MONDO DI GIOCO

Come ha giustamente fatto notare Damaso Scibetta su altri lidi, però, Elden Ring non si limita a espandere man mano il mondo di gioco con un avanzamento progressivo di area in area, bensì fa sì che il giocatore si imbatta in trappole e teletrasporti che improvvisamente tolgono certezze al giocatore, rivelandogli che la mappa si estende parecchio al di là di quanto visto sino a quel momento. La trappola di trasferimento che porta a Caelid, ma ancor di più quella che porta lontanissimo a nord, al ponte divino della capitale Leyndell, sono disponibili nelle prime aree proprio per generare nel giocatore un senso di sgomento, stravolgendo le sue aspettative. Allo stesso modo la scoperta dell’ascensore per Siofra a Tetrobosco stupisce il giocatore mettendo in chiaro che, potenzialmente, potrebbe imbattersi addirittura in intere regioni in posti del tutto inaspettati.

L’arrivo a Siofra è un’esperienza difficile da dimenticare.

Elden Ring, insomma, mira a creare un’avventura dal respiro estremamente ampio, in cui il giocatore sia del tutto libero di creare il suo personale percorso, guidato dalla curiosità e dalla voglia di scoprire, in un mondo di gioco ricco di sorprese. Persino la “main quest” offre un’elevatissima variabilità e spazio di manovra, tanto che è difficile parlare di sequenze e di contenuti obbligatori, se non per le fasi finali dell’avventura. In questo senso trovo per lo più forzate le critiche che sono state rivolte al quest design, per quanto indubbiamente il piazzamento di certi NPC risulti a tratti erratico e poco logico. Se però il senso di meraviglia che Elden Ring riesce spesso a regalare deriva dall’imprevedibilità e dall’assenza di indicazioni, il gioco mette in conto che ci sia l’altissima probabilità che molti giocatori si perdano dei contenuti, e non importa. La possibilità di perdersi qualcosa è parte del gioco di esplorazione, attenzione e curiosità che rende così coinvolgente l’attraversamento dell’Interregno e che rende realmente personale il viaggio di ogni giocatore. Per i completisti (me compreso) c’è la seconda run, o la wiki.

In sostanza, Elden Ring è l’open world ideale? Non proprio. Per molti aspetti, From Software merita elogi per il modo in cui è riuscita a infondere la sua filosofia di design in un mondo vasto e aperto, ritagliandosi un posto tra le poche eccezioni che hanno evitato le tante consuetudini affermate che hanno reso il “genere” spesso stagnante. Ciononostante, per altri versi Elden Ring forse non è riuscito a smarcarsi del tutto da quelli che sono i limiti tipici degli open world. Ma di questo parlerò nella seconda parte dell’articolo, che troverete settimana prossima su queste pagine.


Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.

Articolo precedente
Valorant Fade

Valorant Episodio 4 Atto 3 – Anteprima

Articolo successivo
Roccat Syn Buds Air Recensione

Roccat SYN Buds Air – Recensione

Condividi con gli amici










Inviare

Password dimenticata