Di videogiochi, uomini e storie. Cosa ci affascina così tanto delle storie? Può esistere il concetto stesso di videogioco senza una storia dietro? La Summer Game Fest e le numerose conferenze degli ultimi giorni, dal punto di vista delle storie che ci (mi) hanno raccontato.
«Tanto tempo fa, in Cina – si trattava all’incirca dell’anno 1003 – il sommo sacerdote del Clan del Loto Bianco, Pai Mei, stava camminando per strada, contemplando qualsiasi cosa un uomo dal potere infinito come Pai Mei potesse contemplare – è un modo come un altro di dire: “chi può dirlo?” – quando un monaco Shaolin apparve nella strada, diretto dalla parte opposta. Quando il monaco e il prete si incrociarono, Pai Mei in una pressoché inspiegabile dimostrazione di generosità, rivolse al monaco un impercettibile cenno di saluto. Il cenno non fu ricambiato. Intenzione del monaco era forse quella di insultare Pai Mei? O forse non era egli riuscito a vedere il generoso gesto sociale? Le ragioni del monaco restano ignote. Ma sono note le conseguenze. Il mattino seguente, Pai Mei si presentò al tempio Shaolin e pretese che il sommo abate del tempio gli offrisse il suo collo da tagliare – per rimediare all’insulto. L’abate all’inizio cercò di consolare Pai Mei, ma ben presto si accorse che Pai Mei era inconsolabile.
Così cominciò il massacro del tempio Shaolin e di tutti i 60 monaci che ospitava, per mano del Loto Bianco. E così cominciò la leggenda della tecnica dell’esplosione del cuore con cinque colpi delle dita.» [Kill Bill vol. 2 – 2004]
Quando ripenso a Kill Bill la prima scena che stranamente mi torna in mente è questa: Bill che parla a Beatrix mentre suona il flauto e le racconta la leggenda di Pai Mei. Sono seduti attorno al fuoco e in quella scena c’è tutto: pathos, scherzi, coraggio. C’è tutto il rapporto complesso tra Beatrix e Bill: lui la vuole mettere in guardia perché tiene a lei, ma lo fa ovviamente a suo modo. Intanto ci viene anticipato un personaggio, Pai Mei, attraverso una leggenda che ci fa capire il valore e la potenza che avrà quando Beatrix lo incontrerà poco più avanti. Ogni elemento, dal gioco di luci alle parole utilizzate, alle risate di Uma Thurman, all’inquadratura, serve a raccontare una storia. La loro storia.
Cosa c’entra tutto questo con i videogiochi e con questi giorni di conferenze e showcase? C’entra perché ogni videogioco e ogni conferenza ci ha raccontato una storia. Comprese quelle più “nascoste” e meno seguite. Ed è di quelle storie che ci siamo cibati, ed è a quelle storie che abbiamo applicato il filtro delle nostre aspettative, come facciamo sempre. Proviamo a spogliare quelle storie del loro pubblico, e a guardarle per quello che sono e che hanno voluto trasmettere. Proviamo a capire perché The Plucky Squire e Sunday Gold sono Bill che racconta una storia a Beatrix e contemporaneamente Quentin Tarantino che racconta una storia a noi.
Perché ci raccontiamo storie? Perché, anche adesso mentre scrivo questo articolo, vi racconto qualcosa? Perché un uomo saggio una volta mi disse che “siamo le storie che viviamo e che ci vengono raccontate”. L’uomo è fatto di storie, che ha vissuto, che ha letto, che ha sognato, che gli hanno raccontato, che ha progettato. Ogni cosa che facciamo, fin dall’alba dei tempi, asseconda le nostre storie. L’antropologia culturale studia il modo in cui le società e le culture hanno sviluppato i loro rapporti e le loro strutture attorno alle loro stesse storie e alle loro tradizioni. E così fin da quando siamo piccolissimi veniamo costantemente inseriti all’interno di storie che assorbiamo dalle voci dei nostri parenti, da quello che guardiamo, da quello che studiamo, da quello che leggiamo, e soprattutto da quello che immaginiamo. Tante storie, spesso, ne contengono tante altre.
LA SUMMER GAME FEST, TRIONFO DEI PICCOLI NOMI
Una storia non è soltanto quella cosa che identifichiamo con protagonisti, antagonisti, situazioni e tutti quegli schemi narrativi a cui siamo abituati. La conferenza di Devolver Digital era una storia di per sé. Sotto forma di cortometraggio metteva in scena come ogni anno una dura satira al consumismo videoludico e all’approccio dei grossi publisher. Ci raccontava di come i trailer stessi siano realizzati a puntino per intercettare i desideri delle persone e i trend del momento, di come persino le strutture ludiche e grafiche, gli stili e le scelte artistiche siano spesso condizionati dai generi più seguiti e da quello che sembra funzionare per il pubblico. Nel periodo di Cyberpunk 2077 Steam fu letteralmente invaso da giochi a tema Cyberpunk o che in qualche modo ne richiamassero le atmosfere.
La conferenza Devolver Digital, però, non era soltanto questo. Mentre quella storia si sviluppava e mentre ci venivano mostrati i trailer di The Plucky Squire (datemelo IERI) e di Cult of the Lamb venivamo investiti da un’altra storia: Devolver Digital ha deciso di mostrare soltanto quattro giochi in tutta la conferenza, nonostante fosse publisher di molti altri che sono stati visti altrove negli altri show. Devolver Digital, con questa mossa, ci ha raccontato come sempre di sé. Perché è impossibile raccontare qualcosa a qualcuno senza inserire qualcosa di se stessi, e visto che siamo fatti al 70% di storie [semicit. da Hideo Kojima] questi eventi sono in qualche modo un’occasione di vivere tantissime storie tutte insieme. Tantissimi racconti, diversi, gioco per gioco e casa di sviluppo per casa di sviluppo. E visto che siamo qui seduti attorno al fuoco, mentre Bill suona il flauto e avverte Beatrix dei pericoli a cui sta andando incontro, io ne approfitto per parlarvi di quali storie mi sono arrivate addosso negli ultimi cinque giorni.
La prima storia che mi è arrivata addosso in modo fortissimo e devastante è quella dei sorrisi di @wallstormer, @kimchica25 e @merrykish. Non ho idea di chi siano, non so neppure se li rivedrò mai da qualche parte (caro Damaso, hai provato su Twitter? NdR) ma hanno presentato il Wholesome Direct e giuro di essermi commosso mentre li guardavo sorridere. Ho sentito una piccola, serena, oasi di pace all’interno della “corsa a tutti i costi” che mi sembrava di vedere già dall’evento di Geoff Keighley. Con quei sorrisi, con il modo calmo e tranquillo in cui hanno presentato l’evento e ci hanno più volte ricordato di aiutarli con le loro raccolte fondi, mi hanno fatto avvicinare ai giochi che mostravano con molta più serenità.
Non esistono due esseri umani che recepiscono una storia allo stesso modo, e il videogioco (come tutte le forme d’arte) è un vettore di storie
La nostra storia pregressa, le persone che abbiamo conosciuto, le persone che non abbiamo più attorno, le storie che abbiamo letto, i videogiochi che abbiamo giocato: tutte insieme formano un corpus personale unico e inscindibile che fa di noi le persone che siamo. Pensare che questo non avvenga anche per ogni singolo sviluppatore e per ogni singolo gioco sarebbe estremamente miope: ogni opera, dalla più intimista alla più commerciale, racconta qualcosa a qualcun altro, mentre noi diventiamo avatar degli sviluppatori nel vivere il gioco. Ogni sviluppatore mette in cuor suo una sorta di speranza che noi riusciamo a “recepire il gioco così come lo aveva pensato”, e il videogioco – in quanto arte “performativa” che si sviluppa e diventa reale quando il giocatore la espleta giocandola – è uno dei mezzi più difficili, perché ogni segnale si mescola con tutti gli altri di quelli che lo stanno interpretando giocandolo. Eppure c’è un momento, quello del trailer, in cui l’autore è ancora padrone assoluto di quello che sta mostrando, e il giocatore guardando il trailer può “accontentarsi” di tentare di recepirne il segnale. Anche così, però, non esistono due persone al mondo che ricevono il segnale allo stesso modo. Da qui si sviluppa la pluralità di sensazioni e di opinioni tipiche del mondo dell’arte.
Fall of Porcupine, che ho trovato semplicemente incredibile, non avrebbe avuto lo stesso impatto su di me se non avessi giocato Rainswept e Night in the Woods e se non avessi esperienze pregresse con i terribili sistemi sanitari. Paper Trail ha subito richiamato alla mia mente la genialità della mappa di Carto e il modo in cui vengono gestite le vignette nei due FRAMED, e Mika and the Witch’s Mountain mi ricorda una sera passata con una mia ex a guardare Kiki: Consegne a domicilio di Studio Ghibli.
Ogni volta riceviamo costantemente nuove sensazioni e nuove storie, che si vanno a mescolare con quelle che già conosciamo e che abbiamo vissuto. E che ci hanno raccontato. 0451 è una storia che ci portiamo avanti da più di vent’anni all’interno degli immersive sim, e Paper Animal RPG si inserisce nella lunghissima storia dei giochi di ruolo / adventure tra Zelda e Paper Mario. Fall of Porcupine, Paper Trail e Mika and the Witch’s Mountain, però, raccontano anche cose diverse da quelle che mi hanno colpito: raccontano di sviluppatori che stanno credendo nei loro sforzi e che hanno deciso di declinare l’enorme varietà di esperienze possibili in una specifica scelta.
tutti i giochi raccontano di sviluppatori che credono nei loro sforzi, ma alcuni si orientano verso specifiche scelte capaci di donare loro quel qualcosa in più a livello di messaggio
Cosa ci hanno raccontato il Guerrilla Collective 3, il Wholesome Direct e il Future Games Show? Hanno dato spazio e un volto a tanti team, ce li hanno fatti vedere a casa loro, hanno imbastito una narrazione che voleva urlarci che quegli sviluppatori sono esseri umani come noi. E in quanto esseri umani fanno esattamente quello che ci aspettiamo: ci raccontano qualcosa. American Arcadia sembra una figata dal gameplay innovativo e dallo stile veramente fuori dagli schemi (una sorta di The Truman Show fatto di steroidi, tutto sommato), Bramble: The Mountain King ha preso del tempo per raccontarci di leggende norrene, Phonopolis è la nuova iconica avventura di Amanita Design (che non ha mai sbagliato un colpo e negli ultimi anni ha sviluppato tutto un suo particolare modo di narrare attraverso le avventure grafiche fino al picco raggiunto con Happy Game, tutt’ora la migliore esperienza horror che io abbia mai vissuto) e The Cub sembra il perfetto “seguito” di Golf Club Wasteland. E ancora Ugly, Melodyssey, Terra Nil, Bread & Fred, Tinykin e Sunday Gold.
E ovviamente potrei cercare di parlarvi di come ognuna di queste storie sia legata a qualcosa che mi riguarda, al mio passato, a qualcosa che ho letto, giocato, sentito, vissuto. O provare a percepire, dal segnale che mi è arrivato, cosa stanno passando quegli sviluppatori dopo due anni di pandemia, cos’hanno vissuto, cos’hanno giocato. Facciamo questo ogni giorno: viviamo delle storie degli altri, ce ne cibiamo e ne siamo ingordi, ma non è qualcosa di negativo. Ce le godiamo perché possono essere anche nostre. Perché cambiano il modo in cui, domani, percepiremo il mondo.
E continua a essere così mentre rivediamo Hornet muoversi per le strade di Hollow Knight, ricordandoci quando le abbiamo percorse noi, mentre iniziamo a esplorare i mondi di uno Starfield che è potenzialmente meraviglioso, ricordandoci le prime esplorazioni in Morrowind o in Subnautica, e mentre già percorriamo con la fantasia i prossimi anni di giochi. Ho chiuso la visione di questi eventi con una lista della spesa pronta per essere svuotata man mano che queste opere usciranno. Il videogioco è un racconto, e parla antropologicamente di noi, come Bill parla a Beatrix. Persino quando non sembra che ci sia davvero una storia, ci permette di ricordarci della nostra e di scoprire quella di chi quell’opera l’ha realizzata. Ed è per assorbire questi racconti che viviamo in una società. È per assorbire questi racconti che giochiamo ai videogiochi.