Concedetemi il titolo provocatorio perché in realtà le qualità, o per meglio dire le mancanze, di Diablo Immortal sono ormai più che note a chiunque si sia un minimo informato sulla vicenda. Il titolo di Blizzard e NetEase ha, al momento in cui scrivo questo articolo, un punteggio di 0.3 nell’user score su Metacritic, uno dei più bassi in assoluto del sito e che rappresenta bene quello che l’utenza ne pensa. Non a caso, il bombardamento di opinioni negative è andato a riflettersi in un clamoroso flop commerciale e… no, non è vero: Diablo Immortal è il titolo più remunerativo nella storia del franchise. Per carità, facile contro i primi due capitoli considerata l’enorme differenza nel bacino di utenza odierno rispetto a più di vent’anni fa, ma Diablo 3 non ha certo venduto poco, anzi.
Eppure, c’è una forte discrepanza tra quella che pare essere “l’opinione comune” secondo cui Diablo Immortal sia spazzatura pay to win e quelli che sono i freddi dati: dieci milioni di download condivisi tra le varie piattaforme e cinquanta milioni di dollari incassati in un mese dal lancio. Gliel’abbiamo proprio fatta vedere a quei cattivoni di Blizzard!
DIABLO IMMORTAL, FRA VALUTE E PREDATORI
Intendiamoci, è innegabile che il modello di monetizzazione del titolo sia alla stregua dei peggiori casinò di Las Vegas, e la prima regola di ogni casinò è che la casa vince sempre. Uno schema predatorio, studiato nei minimi dettagli per indurre il più possibile a spendere, elargendo quel tanto che basta per gratificare i giocatori nel tentativo di catturarli nella ragnatela delle microtransazioni, incoraggiate dal basso costo di alcuni pacchettini e dal modo morboso con cui lo store propone all’utente “offerte irrinunciabili”. Non aiutano nemmeno le trecento valute in-game necessarie al potenziamento di ogni aspetto del personaggio, facendo sì che lo sviluppo delle statistiche avvenga a un ritmo estremamente lento per chiunque non abbia intenzione di spendere soldi veri per ottenere i Globi Eterni. Così, tutti gli altisonanti termini con le iniziali maiuscole (Eco Nascente, Cristallo dell’Eco, Brace Evanescente, Emblema Leggendario, Frammento Splendente, Cristallo Enigmatico, eccetera) diventano una scusante per rimbambire e spargere il più possibile le possibilità di personalizzazione, implementando tutta una serie di regole astratte che vanno a complicare quello che in fondo è il solito discorso di portare sempre più alto dei numeretti per essere in grado di picchiare mostri sempre più potenti. In altre parole? Un free to play, senza troppi giri di parole.
Diablo Immortal non è un titolo atipico, quantomeno nel mercato odierno che vede sempre più roba progettata attorno alle microtransazioni, di certo non una novità per chi ha già perso fin troppo tempo su giochi come Clash of Clans, Brawl Stars, Clash Royale, RAID: Shadow Legends e tutto il resto del cucuzzaro predatorio destinato a chi ha le mani eccessivamente bucate. Quello che voglio dire è che la polemica – come al solito – è fuori luogo di fronte a quella che è invece la risposta pratica dei giocatori: accettare passivamente la situazione sulla base del “eh beh, è gratuito”, quell’ombrello universale che viene utilizzato ogni volta che si prova anche solo a sollevare una minima critica a un modello di monetizzazione francamente di cattivo gusto in un contesto storico come il nostro. Un modello che in fondo è supportato dai giocatori, i quali notoriamente hanno la memoria corta e dimenticano presto le promesse di boicottaggio. Poco importano le monetizzazioni, poco importa l’assenza di funzionalità basilari come la possibilità di trasferire un personaggio da un reame all’altro o il fatto che il Pass Battaglia mensile (disponibile in due versioni separate) non viene condiviso tra i server.
dire che “è gratuito” non può essere una giustificazioni sufficiente, specie non quando dietro c’è qualcuno come Blizzard
D’altro canto, Diablo Immortal è più che decente per quelle partite sul cesso (esiste ancora la separazione tra hardcore e casual?) senza avere pretese di primeggiare le classifiche e dominare ogni aspetto che il titolo ha da offrire. Il gioco, di per sé, è in larga parte Diablo 3, con un ritmo molto simile, mostri identici e lo stesso feeling per quanto concerne il combattimento vero e proprio, il fine ultimo del gameplay stesso.
IL GENERE STESSO SI ADATTA BENE A QUESTI MODELLI
Così, dopo trenta ore di gioco passate a potenziare più possibile il personaggio per restare al passo, l’effetto che il titolo cerca di mettere in atto è il cosiddetto sunk cost fallacy, in altre parole quel “vabbè dai, è molto che gioco, due euro ce li butto”, sarebbe un peccato lasciar perdere arrivati a un certo punto. In quel preciso istante lo shop si insinua nelle meccaniche di gioco, con risultati molto proficui per Blizzard: un sistema impossibile da battere anche investendo quantità considerevoli di denaro. Chi ha davvero vinto in questa ennesima diatriba?
Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.