A differenza di molti altri generi che sono rimasti evidenti con gli anni, lo stealth ha fatto un percorso particolare. In coerenza con lo stile di gioco che propone è quasi “sparito”, mischiandosi agilmente con molti altri. Ma non ci stiamo perdendo qualcosa?
Sono comparse le prime immagini del remake di Splinter Cell e mentre le osservavo la mente scorreva tra i giochi di quello che nel tempo è diventato forse il mio secondo genere preferito. Ammesso, come sempre, che abbia senso parlare di generi. In ogni caso, quello dei giochi stealth non è mai stato facile da approcciare, perché per sua natura tende ad avere una curva di difficoltà ripida. Il protagonista non può o non vuole affrontare a viso aperto gli avversari che gli si parano davanti e salvo qualche escalation finale il gioco è una continua ricerca alla strategia migliore per passare inosservati. Se pensiamo ai classici Splinter Cell, Tenchu, Thief, Hitman, l’approccio silenzioso del protagonista rimaneva una costante e solo in pochi misurati momenti il tono accelerava e ci obbligava ad agire in fretta, se non addirittura rumorosamente.
Questo modus operandi basato su continui appostamenti, osservazione delle ronde, calcolo dei tempi e pochi sicuri attacchi è andato sparendo nel tempo grazie all’ibridazione, quello che potremmo chiamare lo “stealth con opzione action” o viceversa. Qui è dove il genere ha subito un’evoluzione insolita, perché non è come per i platform o gli shooter in prima o terza persona, che sono andati raffinandosi, mischiandosi tra di loro, ma rimanendo di solito ben evidenti in quella che è la loro natura principale. Lo stealth si è frammentato come il classico vaso di vetro che si frantuma a terra, diramando i cocci in tutte le direzioni. Si è insinuato nell’horror come in Alien Isolation o Outlast. Negli action adventure, come ci mostrano le brevi sezioni silenziose dei recenti Tomb Raider e gli Uncharted. Nei GDR, come ci mostra la serie di Deus Ex. Proprio le ultime due iterazioni di questa serie però, Human Revolution e Mankind Divided, mi hanno dato modo di osservare una cosa. Un elemento di gameplay bizzarro, per il quale tuttora non riesco a darmi una spiegazione.
In questi due giochi possiamo equipaggiarci di qualsiasi sfumatura possibile tra dardi tranquillanti e lanciamissili, però se non ci facciamo mai vedere, se non usiamo armi letali, se esploriamo nicchie nascoste e condotti d’aerazione vari, a fine gioco avremmo ricevuto circa un terzo di punti esperienza totali in più, con evidenti vantaggi sulle abilità acquisibili. Per parlare delle scelte morali nei giochi di ruolo servirebbe un articolo a parte e dal punto di vista narrativo, per come è stato scritto Adam Jensen, ha perfettamente senso che preferisca agire dietro le quinte. Ma da giocatore come dovrei interpretare questi premi selettivi? Perché il gioco mi propone diversi approcci, ma vengono premiati diversamente? Non mi è sembrato che giocare stealth fosse più difficile di un approccio aggressivo e rumoroso, anzi, in molte situazioni è spesso vero il contrario.
I DUE DEUS EX PIÙ RECENTI SONO GIOCHI DALL’ANIMA TORMENTATA
I classici, dicevamo. Splinter Cell ha subito negli anni un evidente processo di semplificazione. Dopo una trilogia eccelsa in cui ogni upgrade era comunque funzionale a muoversi sempre più come un fantasma e dopo un Double Agent che introduce efficacemente il concetto di doppio gioco e fiducia, Conviction fa una serie di scelte strane. L’idea di ritornare alla base, di spogliare un personaggio dei gadget dati per scontati nel tempo è di per sé piacevole, ma il tono cambia molto e diventa una sorta di blockbuster action vicino alle atmosfere di un Jason Bourne. Rimane poco della circospezione richiesta dagli originali e la facilità con cui è possibile mettere KO anche più nemici in pochi secondi li fa sembrare degli emeriti inettti. Quando invece uno dei tratti più affascinanti degli stealth è quello di avere avversari credibili, quelli che se ti vedono ti fanno la festa.
SPLINTER CELL: BLACKLIST PROPONEVA UN DESIGN SANDBOX CHE PONEVA SULLO STESSO PIANO STEALTH E SPARATORIE
Passiamo ad Hitman, che dopo un Absolution che aveva sollevato qualche perplessità per il suo focus più narrativo che ludico, ritorna alle origini con quello che è fondamentalmente un soft reboot e i suoi 1000 modi di portare a termine i diversi contratti a suon di travestimenti e inganni. Tenchu invece, ahinoi, è proprio sparito (sebbene i ninja comunque vivano ancora nelle forme di produzioni indie dal budget umile, ma dal cuore grande come Aragami e Mark of the Ninja) e Thief… che dire di Thief? Pur con tutte le sue semplificazioni mi sono scoperto un tiepido entusiasta del reboot del 2013, ma a quanto pare non è stato suo destino proseguire, né con la nuova via, né con la vecchia. Ho la sensazione che lo stealth senza compromessi non sia più applicabile a giochi “grossi”, quelli che devono durare più di 10 ore e avere valori di produzione alti. Ma un piccolo goblin è qui per dimostrarmi il contrario. Due volte.
CYANIDE STUDIO E LA VIA DI STYX
Sviluppati da Cyanide Studio e prodotti da Focus Home Interactive, Styx: Masters of Shadows e il suo sequel Shards of Darkness non optano per nessun compromesso o ibridazione. Anzi, sfruttano proprio il loro setting di fantasy satirico per andare fino in fondo con una modalità in cui un singolo attacco nemico può segnare il game over. Cyanide Studio non tenta di rendere il gioco più grande di quello che può essere, tutt’altro. Lo taglia del superfluo. Volendo è possibile giocare in modalità facile, avendo la possibilità di affrontare uno scagnozzo faccia a faccia purché sia da solo, ma suona come una concessione, un regalino. A Styx piace essere giocato a difficoltà alta, con il massimo numero possibile di avversari che incrociano le loro ronde e il minimo numero possibile di gadget che possono aiutarci, obbligandoci a tornare all’origine del genere: capire le finestre di tempo in cui i nemici guardano dall’altra parte e sfruttarle.
Verde, maleodorante, eppure astuto e superatletico, Styx è un orribile ladro senza scrupoli, in un mondo in cui umani, elfi e nani non sono tanto meglio. Sono solo più gradevoli alla vista. Il nostro goblin è armato di coltellaccio che non esiterà a usare qualora si arrivi ai ferri corti, ma ha anche altre risorse. C’è la precisa balestrina da polso, la possibilità di localizzare creature viventi attraverso le pareti, quella di diventare invisibili per brevi tratti, pozioni per disfarsi dei corpi e infine la “firma” di questo stealth, ossia il clone. Styx può in qualsiasi momento vomitare un clone di sé stesso e mandarlo in avanscoperta a mo’ di esploratore sacrificabile. Le abilità atletiche sono le stesse, ma i vestiti non vengono clonati, ergo non sarà in grado di utilizzare nessun gadget. Si possono però attivare meccanismi, sabotare strutture trasformandole in trappole, avvelenare il cibo vomitandoci dentro, sbloccare passaggi o farsi localizzare di proposito in modo da creare un diversivo al padrone.
SCRUTARE OGNI ANGOLO È UNA BUONA IDEA, NON SOLO PER TROVARE NUOVE VIE MA ANCHE PREZIOSI TESORI E UTILE EQUIPAGGIAMENTO
I nemici non brillano per intelligenza artificiale, ma compensano con la loro diversità. A poco serve la daga di Styx contro un soldato speciale o un nano, rendendo quindi necessario pensare a un sotterfugio come sabotare un lampadario o aspettare che si avvicinino pericolosamente a una sporgenza. Quegli spilungoni degli elfi saranno ancora più subdoli, obbligandoci a cercare sempre di essere più in alto di loro. Completano il quadro alcuni momenti più horror in cui avremo a che fare con enormi scarabei ciechi, ma dall’udito finissimo. Il gioco usa tutti i trucchi possibili per offrire varietà interna, pur restando fedele alla sua cornice iniziale. In nessun caso potremo correre in giro incrociando le lame con un nemico dietro l’altro, né all’inizio né alla fine. Il mondo di gioco si propone abbastanza fresco a sua volta. Siamo palesemente negli archetipi del fantasy anglosassone, ma le ambientazioni hanno quel gusto verticale che va a citare anche altri elementi, come navi volanti più o meno enormi dal gusto steampunk, villaggi portuali, abbazie collocate molto, ma molto in alto, fino ai classici sotterranei con molto da nascondere. Tutto ruota attorno a un misterioso, irraggiungibile albero della vita e all’ambra, minerale in grado di garantire abilità sovrannaturali e ovviamente ambito da tutti. Styx è in sintonia con questo minerale e proprio il suo tatuaggio d’ambra ci indicherà quando saremo nascosti alla vista degli antagonisti. La storia si apre con il nostro goblin imprigionato nella più classica delle prigioni. Compare ben presto una possibilità per evadere, ed eccoci alla ricerca di basilare equipaggiamento e di una via di fuga verso la nostra caverna, hub da cui partiranno le varie missioni e in cui sarà possibile rifornirsi di attrezzatura e contemplare i tesori saccheggiati.
LA VERTICALITÀ DELLE AMBIENTAZIONI SALTA SUBITO ALL’OCCHIO
Il seguito non fa che confermare la formula, introducendo giusto qualche nuovo gadget e incrementando le possibilità di crafting. Ma il cuore del gioco rimane lo stesso, proponendo un’audace sfida agli amanti dello stealth classico. Ci ho messo la bellezza di 30 ore per completarlo a difficoltà massima, a causa di sciagurate decisioni proprio quando pensavo di avere la vittoria in tasca. L’assenza di checkpoint fa pesare attentamente il calcolo dei rischi e più di una volta volevo essere realmente sicuro di aver memorizzato correttamente le ronde delle guardie, osservandole con pazienza dall’alto. Ora potreste dirmi che lo stealth “puro” non è mai esistito, che Styx in realtà è semplicemente il risultato del genere che si mischia al platform, e vista la quantità di balzi che si fanno nel gioco non potrei neanche obiettare più di tanto, ma che vi posso dire, mi mancava esplorare un universo videoludico silenzioso come un gatto dall’inizio alla fine e in questo la duologia di Styx è diventata immediatamente un classico che non invecchierà, ai miei occhi.
Una piccola curiosità prima di lasciarci: il personaggio di Styx fa in realtà la prima comparsa in Of Orcs and Men, un particolare esperimento di strategico di coppia. Lo scaltro goblin farà squadra con un grosso orco tutto muscoli e onore e mettendo assieme i loro talenti praticamente opposti dovranno farsi largo in ambientazioni ricavate dai classici tropi fantasy. Il gameplay era completamente diverso e sebbene una spruzzata di stealth ci fosse, le ambientazioni dovevano essere navigabili da entrambi i personaggi. Non c’è quindi la verticalità che caratterizza la duologia focalizzata sul goblin, né il dettaglio del suo equipaggiamento. Ciò nonostante è già possibile riconoscere i germogli di quello che diventerà il variopinto universo nel quale si muove il nostro antieroe.
Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.