In anni nei quali il mondo occidentale non aveva ancora trovato la sua icona nel mondo dei giochi d’azione con le spade, il fantasma di Prince of Persia riemerse dal passato per sconvolgere la discussione. Per tre volte.
È notizia recente che Ubisoft potrebbe aver cancellato il sequel di Immortals: Fenix Rising. Non ero particolarmente interessato a questo gioco, ma ogni volta che il publisher francese decide di dire di no a qualcosa di colorato, espressivo, qualche cosa che non sia Assassin’s Creed, Far Cry o derivati, il cuore lacrima un po’. Ubisoft è tra i publisher con cui sono cresciuto nei begli anni del liceo artistico ed ero grato di ogni videogioco che mi ispirasse nuove suggestioni estetiche. In mezzo ad assolute stravaganze da ogni parte del mondo e pattern “pop“ alla Call of Duty che già si stavano consolidando, Ubisoft era quella che con una mano giocava sicuro forte del nome e della qualità dei franchise ispirati ai mondi scritti da Tom Clancy, dall’altra era pronta a buttarsi in scommesse ardite. Per fare un parallelo da ufficio, è quel collega serio e professionale nelle mail, ma che sai è anche un bel mattacchione alle feste.
UBISOFT, PERCHÉ FAI COSÌ?
Come ogni anno ho seguito il Summer Games Fest. Ho visto attivamente alcune conferenze, altre me le sono tenute in sottofondo mentre facevo altro e mi rincresce dire ancora una volta che quella di Ubisoft è ricaduta nel secondo gruppo. Perché anche in questa annata è stato tutto assolutamente prevedibile: momento Just Dance, momento Assassin’s Creed, momento Far Cry-like dato da Avatar: Frontiers of Pandora, momento Watch Dogs-like dato da Star Wars Outlaws. Su quest’ultima presentazione devo spezzare una lancia in quanto pare un gioco con delle idee e che riprende il concetto “gioco su Star Wars senza i Jedi“, la cui ultima iterazione risale a molto tempo fa, data la cancellazione di Star Wars 1313.
ALLA SUMMER GAME FEST, LO SHOW UBISOFT HA VISTO POCHI SPRAZZI DI VITALITÀ
Era il 2003, anni in cui il genere action era dominato dallo stile giapponese mentre il mondo occidentale doveva ancora trovare un proprio campione sul tema, poi arrivato con God of War. Per campione non sto intendendo la qualità finale del gioco, quanto piuttosto un’icona, un “template“ a cui altri sviluppatori si ispirarono, quel personaggio che conosce anche il cugino che non gioca. Ci furono esperimenti quali il troppo poco ricordato The Mark of Kri, ma il suo approccio al combattimento privo di punteggi, di globi luminosi da cui recuperare energia, di mosse da “comprare“ con i punti e nel quale aveva assolutamente senso agire di soppiatto come prima opzione, lo rese difficile da comprendere per buona parte del pubblico. Inoltre, anche qualora avesse avuto successo, sarebbe stato limitato alla console Sony.
IL PRINCIPE TORNATO PER RESTARE (MA NON A LUNGO)
Ma a un certo punto un campione arrivò. No, mi sbaglio: ritornò. Il classico senza tempo ideato da Jordan Mechner si mostrò nella sua prima versione in 3D e all’uscita del gioco nel 2003 aveva tutte le carte in regola per cambiare qualcosa per sempre. Stiamo parlando di Prince of Persia: The Sands of Time. La sequenza si apriva con il botto, per essere precisi quello di catapulte che lanciano il carico verso le mura di un castello nemico. Il nostro principe si insinua rapidamente nella cittadella, intento a trafugare un tesoro più particolare di altri. Facciamo subito esperienza dell’agilità del personaggio: gli ostacoli bassi si scavalacano, quelli alti si oltrepassano rotolando, le colonne si possono scalare, i varchi saltare, ma accidenti, quello è un po’ ampio e non ci sono aste portabandiera per fare un numero da trapezista. Poco male, corsetta sul muro e siamo di là.
IL COMBATTIMENTO DI SANDS OF TIME FACEVA OTTIMO USO DELLA SPAZIALITÀ
I combattimenti diventavano quindi danze in cui era importante non farsi circondare e dove l’osservazione del terreno di scontro poteva fare la differenza tra la vittoria o la disfatta. A rendere le cose più complesse è la totale assenza di un percorso di upgrade o vari alberi di apprendimento da esplorare. Ogni volta che il magico pugnale del principe si nutriva della sabbia posseduta dai nemici incrementava il proprio potere e la possibilità di attivare le varie manipolazioni temporali, ma vista l’inevitabilità degli scontri e assenza di bonus o penalità relative allo stile, questo percorso di crescita sarebbe avvenuto a prescindere nel corso del gioco. Il recupero di energia inoltre, non poteva avvenire ad armi estratte e richiedeva un momento di calma presso una fonte d’acqua. Per farla breve, durante il combattimento avveniva solo quello. Nienta palline rosse per l’esperienza, niente palline verdi per recuperare energia, niente giudizi a punti per la leaderboard. Dark Souls doveva ancora arrivare a cambiare qualcosa per sempre, ma ciònonostante incrociare le lame in questo gioco era un momento serio.
POTRÀ SEMBRARE UN DETTAGLIO DA POCO, MA HO APPREZZATO ANCHE L’USO CHE FA DELLA SUA SCIABOLA IL PRINCIPE
Squadra che vince non si cambia ed erano un po’ gli anni delle trilogie. Ecco quindi che il sequel si presenta in un modo inatteso, benché le differenze fossero solo nell’apparenza e ok, va ammesso, nella colonna sonora. Più volte del dovuto lo stile di Prince of Persia: Warrior Within venne definito “gotico“ e ogni volta che veniva fatto il mio manuale di storia dell’arte perdeva una pagina, però concordo che il primo approccio possa estraniare. Tutto è più dark, il principe sfoggia un corpetto in cuoio nero, la prima villain ad attaccarci entra in scena a sua volta con un abbigliamento molto orientato a un’estetica vampiresca e poco a una funzionalità in battaglia. Ma superato il primo scoglio tutto è immediatamente familiare. Benché il principe si trovi in una regione remota, recupera energia bevendo acqua, combatte con lame curve ed esplora con mosse acrobatiche (arricchite da alcune nuove possibilità, come quella di scendere da 30 metri di altezza in un attimo, previa avere un arazzo o bandiera da usare come rallentatore tramite la sua fidata sciabola).
WARRIOR WITHIN SI PRESENTA CON UNA VESTE PIÙ OSCURA, MA IL COMBATTIMENTO CONTINUA A SPLENDERE
Prince of Persia: The Two Thrones, il capitolo finale della trilogia, raggruppa nuovamente tutte queste possibilità aggiungendo una propria versione del “devil trigger“, o per essere precisi, a una situazione da dottor Jekyll e mister Hyde. In alcuni momenti decisi dalla trama, il principe può cedere spazio a una parte oscura della sua personalità, infettata da una maledizione. In questa forma l’arma primaria diventa una flagellante catena da usare per farsi rapidamente largo tra nemici con uno stile oltre le umane possibilità, nonché utile come estensione per dondolarsi tra le architetture. Il sistema si arricchisce anche di guidate sezioni stealth: in alcune sequenze potremo attaccare avversari ignari previa un corretto tempismo, che però sarà in gestione a noi. I demoniaci avversari non hanno veri e propri punti vitali e starà a noi portare a termine gli assalti agendo con il giusto tempismo agli spettacolari quick time events. In caso di fallimento poco male, dovremo proseguire il combattimento con un approccio più frontale. L’ambientazione in questo caso fu più familiare, in quanto siamo letteralmente a casa del principe, intento a riconquistare la sua città. Una trilogia che ha saputo partire con ottime basi e le ha sapute proseguire per tre capitoli incrementando possibilità, ma sempre in modo orizzontale, aggiungendo opzioni da gestire sia in combattimento che in esplorazione e non soltanto aumentando il livello di potere del protagonista.
ALTRI PRINCIPI PER ALTRI PRINCÌPI
Poi arrivò Prince of Persia 2008. Non voglio veramente male a questo gioco, anzi, da vedere è ancora zucchero per gli occhi. Però… però perché si chiama così?
La Persia è presente soltanto in timidi riferimenti architetturali e il combat system è stato semplificato per poter gestire degli scontri 1vs1 che non hanno più nessun senso di scherma, quanto piuttosto quello altamente scenografico di personaggi con superpoteri. Il principe (che, viene chiarito, non è lo stesso della trilogia delle sabbie) e la sua compagna di viaggio, Elika, affronteranno i demoniaci aguzzini a colpi di spada e acrobatiche impossibili. Ancora più interessante è esplorare le ambientazioni facendo uso di abilità di coppia, in un risultato finale che ricorda Ico nel concetto e Okami nello stile visivo. Scusate se è poco. Però perché questo gioco sta sovrapponendosi alla trilogia delle sabbie, quando letteralmente non c’era nulla da cambiare se non il titolo per fargli avere un’identità tutta sua?
Menzione di servizio anche per Prince of Persia: The Forgotten Sands, però sostanzialmente il suo ruolo nell’articolo inizia e finisce qui perché non ebbe né la ricerca artistica del 2008, né quella a 360 gradi della trilogia delle sabbie, risultando in un titolo derivativo con poco mordente in tutte le direzioni e che finiva per prendere lezioni dall’ormai onnipresente God of War quando a mio parere avrebbe avuto tutto il potenziale per invece impartirle.
LA COSA PIÙ DOLOROSA È NON AVER VISTO LE LEZIONI DI PRINCE OF PERSIA RIPRESE DA ALTRI STUDI
Sono tuttora convinto che c’è stato un momento in cui Ubisoft aveva in mano la pietra angolare degli action occidentali ed è stata la prima a non crederci. Meno male che almeno la trilogia del principe senza nome è una serie iniziata e conclusa e che sarà per sempre un classico senza tempo. Altri titoli sperimentali nati nello studio francese non hanno avuto altrettanta fortuna, ma ci torneremo prossimamente.
Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.