Frequenza Critica racconta: Ubisoft e Prince of Persia

In anni nei quali il mondo occidentale non aveva ancora trovato la sua icona nel mondo dei giochi d’azione con le spade, il fantasma di Prince of Persia riemerse dal passato per sconvolgere la discussione. Per tre volte.

Ubisoft Prince of Persia

È notizia recente che Ubisoft potrebbe aver cancellato il sequel di Immortals: Fenix Rising. Non ero particolarmente interessato a questo gioco, ma ogni volta che il publisher francese decide di dire di no a qualcosa di colorato, espressivo, qualche cosa che non sia Assassin’s Creed, Far Cry o derivati, il cuore lacrima un po’. Ubisoft è tra i publisher con cui sono cresciuto nei begli anni del liceo artistico ed ero grato di ogni videogioco che mi ispirasse nuove suggestioni estetiche. In mezzo ad assolute stravaganze da ogni parte del mondo e pattern “pop“ alla Call of Duty che già si stavano consolidando, Ubisoft era quella che con una mano giocava sicuro forte del nome e della qualità dei franchise ispirati ai mondi scritti da Tom Clancy, dall’altra era pronta a buttarsi in scommesse ardite. Per fare un parallelo da ufficio, è quel collega serio e professionale nelle mail, ma che sai è anche un bel mattacchione alle feste.

UBISOFT, PERCHÉ FAI COSÌ?

Come ogni anno ho seguito il Summer Games Fest. Ho visto attivamente alcune conferenze, altre me le sono tenute in sottofondo mentre facevo altro e mi rincresce dire ancora una volta che quella di Ubisoft è ricaduta nel secondo gruppo. Perché anche in questa annata è stato tutto assolutamente prevedibile: momento Just Dance, momento Assassin’s Creed, momento Far Cry-like dato da Avatar: Frontiers of Pandora, momento Watch Dogs-like dato da Star Wars Outlaws. Su quest’ultima presentazione devo spezzare una lancia in quanto pare un gioco con delle idee e che riprende il concetto “gioco su Star Wars senza i Jedi“, la cui ultima iterazione risale a molto tempo fa, data la cancellazione di Star Wars 1313.

ALLA SUMMER GAME FEST, LO SHOW UBISOFT HA VISTO POCHI SPRAZZI DI VITALITÀ

Però… negli stessi 5 minuti si è visto un segmento stealth, una sparatoria risolvibile in relativa tranquillità (ma allora a che serve andare in stealth?), un inseguimento, un momento di calma in un piccolo hub di raccolta informazioni. Una ventata di novità è data dalla transizione fluida tra terraferma, stratosfera e spazio profondo nel momento in cui usiamo l’astronave, ma il template del gioco pare rivolgersi a una struttura già rodata. Non per forza un male, Star Wars è un classico che ha avuto esiti controversi quando ha provato a sperimentare. Tuttavia resto deluso perché ancora una volta, il mattacchione non è venuto alla festa. No, non considero quel Prince of Persia come quella persona, assolutamente (anche perché in realtà lui è quello che salva il principe, NdR). E non riconosco neanche la Persia in quel trailer, a dirla tutta. E questa piccola gallery of feels ci da il via per parlare di un numero di quel matto, un numero in cui era molto bravo in un particolare triennio: quello di inventare un sistema di combattimento tutto suo proprio in atmosfere persiane.

Era il 2003, anni in cui il genere action era dominato dallo stile giapponese mentre il mondo occidentale doveva ancora trovare un proprio campione sul tema, poi arrivato con God of War. Per campione non sto intendendo la qualità finale del gioco, quanto piuttosto un’icona, un “template“ a cui altri sviluppatori si ispirarono, quel personaggio che conosce anche il cugino che non gioca. Ci furono esperimenti quali il troppo poco ricordato The Mark of Kri, ma il suo approccio al combattimento privo di punteggi, di globi luminosi da cui recuperare energia, di mosse da “comprare“ con i punti e nel quale aveva assolutamente senso agire di soppiatto come prima opzione, lo rese difficile da comprendere per buona parte del pubblico. Inoltre, anche qualora avesse avuto successo, sarebbe stato limitato alla console Sony.

IL PRINCIPE TORNATO PER RESTARE (MA NON A LUNGO)

Ma a un certo punto un campione arrivò. No, mi sbaglio: ritornò. Il classico senza tempo ideato da Jordan Mechner si mostrò nella sua prima versione in 3D e all’uscita del gioco nel 2003 aveva tutte le carte in regola per cambiare qualcosa per sempre. Stiamo parlando di Prince of Persia: The Sands of Time. La sequenza si apriva con il botto, per essere precisi quello di catapulte che lanciano il carico verso le mura di un castello nemico. Il nostro principe si insinua rapidamente nella cittadella, intento a trafugare un tesoro più particolare di altri. Facciamo subito esperienza dell’agilità del personaggio: gli ostacoli bassi si scavalacano, quelli alti si oltrepassano rotolando, le colonne si possono scalare, i varchi saltare, ma accidenti, quello è un po’ ampio e non ci sono aste portabandiera per fare un numero da trapezista. Poco male, corsetta sul muro e siamo di là.

IL COMBATTIMENTO DI SANDS OF TIME FACEVA OTTIMO USO DELLA SPAZIALITÀ

Il gioco proponeva una spazialità e un controllo della stessa incredibile, ancora prima di impugnare la sciabola. Perché l’intero sistema poi si adattava al combattimento, in quello che era un antenato più tecnico del free-flow system poi adottato dalla saga Arkham di Batman. Il salto diventava la possibilità di fare “scalino“ su un nemico per volteggiargli alle spalle (sempre ammesso che non avesse un’arma lunga adatta a impedire tale azione), la wallrun diventava un temibile attacco usando il muro come appoggio, una colonna diventava un perno per un attacco circolare. E tutto questo prima ancora di iniziare a parlare dei poteri di turno, che comunque non erano l’equivalente di una palla di fuoco o di un attacco ad area, quanto piuttosto altri elementi da utilizzare con strategia, tra un rallenty generale, la possibilità di riavvolgere il tempo per qualche secondo o una pugnalata in grado di congelare il tempo per l’avversario colpito (che sì, di fatto coincideva con la sua morte nel successivo attacco per lui imparabile, ma rimaneva un’azione costosa in termini di energia, e quindi da misurare bene, almeno all’inizio).

I combattimenti diventavano quindi danze in cui era importante non farsi circondare e dove l’osservazione del terreno di scontro poteva fare la differenza tra la vittoria o la disfatta. A rendere le cose più complesse è la totale assenza di un percorso di upgrade o vari alberi di apprendimento da esplorare. Ogni volta che il magico pugnale del principe si nutriva della sabbia posseduta dai nemici incrementava il proprio potere e la possibilità di attivare le varie manipolazioni temporali, ma vista l’inevitabilità degli scontri e assenza di bonus o penalità relative allo stile, questo percorso di crescita sarebbe avvenuto a prescindere nel corso del gioco. Il recupero di energia inoltre, non poteva avvenire ad armi estratte e richiedeva un momento di calma presso una fonte d’acqua. Per farla breve, durante il combattimento avveniva solo quello. Nienta palline rosse per l’esperienza, niente palline verdi per recuperare energia, niente giudizi a punti per la leaderboard. Dark Souls doveva ancora arrivare a cambiare qualcosa per sempre, ma ciònonostante incrociare le lame in questo gioco era un momento serio.

POTRÀ SEMBRARE UN DETTAGLIO DA POCO, MA HO APPREZZATO ANCHE L’USO CHE FA DELLA SUA SCIABOLA IL PRINCIPE

Anche la postura di guardia del principe cercava un compromesso diegetico tra giocabilità e identità culturale del gioco, trovandolo in un personaggio esperto in sciabola… e solo in quella. Il protagonista è un abile combattente con lame curve e corte e il suo stile di combattimento è pensato attorno a quelle. Il gioco rinuncia in principio all’idea di un arsenale variegato in cambio di una focalizzazione, in tutti i settori. A tal proposito, da appassionato di scherma storica è sempre un piacere per me trovare personaggi che tengono in mano le spade in modo sensato, cioè tra di loro e l’avversario. Mi cascano sempre le braccia quando vedo i protagonisti di giochi hack’n slash tenere la posa laterale alla Tidus di Final Fantasy X, oppure riporre le armi alla fine di ogni combo per poi riestrarle immediatamente all’inizio della successiva. Il principe non è così ingenuo. La postura di guardia è studiata per entrare in parata o in attacco con il minimo tempo necessario possibile e con sciabola in una mano e pugnale del tempo nell’altra, il sistema di combattimento si apriva ben presto in tutte le sue possibilità.

Squadra che vince non si cambia ed erano un po’ gli anni delle trilogie. Ecco quindi che il sequel si presenta in un modo inatteso, benché le differenze fossero solo nell’apparenza e ok, va ammesso, nella colonna sonora. Più volte del dovuto lo stile di Prince of Persia: Warrior Within venne definito “gotico“ e ogni volta che veniva fatto il mio manuale di storia dell’arte perdeva una pagina, però concordo che il primo approccio possa estraniare. Tutto è più dark, il principe sfoggia un corpetto in cuoio nero, la prima villain ad attaccarci entra in scena a sua volta con un abbigliamento molto orientato a un’estetica vampiresca e poco a una funzionalità in battaglia. Ma superato il primo scoglio tutto è immediatamente familiare. Benché il principe si trovi in una regione remota, recupera energia bevendo acqua, combatte con lame curve ed esplora con mosse acrobatiche (arricchite da alcune nuove possibilità, come quella di scendere da 30 metri di altezza in un attimo, previa avere un arazzo o bandiera da usare come rallentatore tramite la sua fidata sciabola).

WARRIOR WITHIN SI PRESENTA CON UNA VESTE PIÙ OSCURA, MA IL COMBATTIMENTO CONTINUA A SPLENDERE

Ma è il sistema di combattimento a splendere nell’oscurità. Completo di tutte le variabili del primo capitolo, viene arricchito di nuove ulteriori possibilità che possiamo riassumere in due punti. Il primo è quello di avere un’arma fissa, la solita spada a una mano che verrà rimpiazzata da modelli più efficienti nel corso dell’avventura, ma anche un’arma usa e getta da tenere nell’altra mano. Questa porterà il principe ad adattare il suo floreale stile di combattimento a due armi, o anche a dargli la possibilità di lanciarla via per liberare l’arto e andare al secondo punto: i nemici possono essere afferrati per poter venire maltrattati sul posto, usati come trampolino per saltare in più direzioni, come scudi umani…ehm, demoniaci/qualsiasi cosa siano o venire scagliati via tramite un’azione degna di un maestro di Judo. Di nuovo c’è uno studio del combat system e della sua spazialità che non ha nulla a che fare con combo e doppi salti, quanto piuttosto su spazi e interazione ambientale.

Prince of Persia: The Two Thrones, il capitolo finale della trilogia, raggruppa nuovamente tutte queste possibilità aggiungendo una propria versione del “devil trigger“, o per essere precisi, a una situazione da dottor Jekyll e mister Hyde. In alcuni momenti decisi dalla trama, il principe può cedere spazio a una parte oscura della sua personalità, infettata da una maledizione. In questa forma l’arma primaria diventa una flagellante catena da usare per farsi rapidamente largo tra nemici con uno stile oltre le umane possibilità, nonché utile come estensione per dondolarsi tra le architetture. Il sistema si arricchisce anche di guidate sezioni stealth: in alcune sequenze potremo attaccare avversari ignari previa un corretto tempismo, che però sarà in gestione a noi. I demoniaci avversari non hanno veri e propri punti vitali e starà a noi portare a termine gli assalti agendo con il giusto tempismo agli spettacolari quick time events. In caso di fallimento poco male, dovremo proseguire il combattimento con un approccio più frontale. L’ambientazione in questo caso fu più familiare, in quanto siamo letteralmente a casa del principe, intento a riconquistare la sua città. Una trilogia che ha saputo partire con ottime basi e le ha sapute proseguire per tre capitoli incrementando possibilità, ma sempre in modo orizzontale, aggiungendo opzioni da gestire sia in combattimento che in esplorazione e non soltanto aumentando il livello di potere del protagonista.

ALTRI PRINCIPI PER ALTRI PRINCÌPI

Poi arrivò Prince of Persia 2008. Non voglio veramente male a questo gioco, anzi, da vedere è ancora zucchero per gli occhi. Però… però perché si chiama così?

Ubisoft Prince of Persia

La Persia è presente soltanto in timidi riferimenti architetturali e il combat system è stato semplificato per poter gestire degli scontri 1vs1 che non hanno più nessun senso di scherma, quanto piuttosto quello altamente scenografico di personaggi con superpoteri. Il principe (che, viene chiarito, non è lo stesso della trilogia delle sabbie) e la sua compagna di viaggio, Elika, affronteranno i demoniaci aguzzini a colpi di spada e acrobatiche impossibili. Ancora più interessante è esplorare le ambientazioni facendo uso di abilità di coppia, in un risultato finale che ricorda Ico nel concetto e Okami nello stile visivo. Scusate se è poco. Però perché questo gioco sta sovrapponendosi alla trilogia delle sabbie, quando letteralmente non c’era nulla da cambiare se non il titolo per fargli avere un’identità tutta sua?

Ubisoft Prince of Persia

Menzione di servizio anche per Prince of Persia: The Forgotten Sands, però sostanzialmente il suo ruolo nell’articolo inizia e finisce qui perché non ebbe né la ricerca artistica del 2008, né quella a 360 gradi della trilogia delle sabbie, risultando in un titolo derivativo con poco mordente in tutte le direzioni e che finiva per prendere lezioni dall’ormai onnipresente God of War quando a mio parere avrebbe avuto tutto il potenziale per invece impartirle.

LA COSA PIÙ DOLOROSA È NON AVER VISTO LE LEZIONI DI PRINCE OF PERSIA RIPRESE DA ALTRI STUDI

E quello che fa più male è non aver visto queste suggestioni riprese da altri studi. Ci sono ovviamente stati giochi che hanno tentato di implementare combattimenti senza doppi salti, palle di fuoco e varie implementazioni arcade, ma escludendo quelli che per forza di cose vogliono ottenere un setting realistico, nessuno di quelli che ho provato è riuscito a ottenere una quadra così focalizzata e fluida come quella della trilogia della sabbie.

Sono tuttora convinto che c’è stato un momento in cui Ubisoft aveva in mano la pietra angolare degli action occidentali ed è stata la prima a non crederci. Meno male che almeno la trilogia del principe senza nome è una serie iniziata e conclusa e che sarà per sempre un classico senza tempo. Altri titoli sperimentali nati nello studio francese non hanno avuto altrettanta fortuna, ma ci torneremo prossimamente.


Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.

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