Westwood non poté utilizzare sequenze e campioni audio della pellicola. Niente filmati, niente brani di Vangelis, va tutto creato o ricreato da zero
Apro la scatola. Dentro ci trovo il box piccolissimo di Alien Breed Special Edition ’92 per Amiga (don’t ask. L’effetto matrioska è un grande classico salvaspazio delle mie collezioni), il jewel case quadruplo con i quattro CD-ROM e un
manualetto da 32 pagine che ti spiega come funzionano la macchina KIA (Knowledge Integration Assistant) che mette ordine tra prove e sospetti, l’ESPER e il resto. C’è anche un depliant che ricorda a chi non lo sapesse, in quel 1997 lì, che
Westwood è la stessa Westwood che sta dominando i PC di mezzo pianeta con Command & Conquer e i suoi spin-off come Red Alert, e che ha da poco sfornato un altro titolo ambizioso, il
GdR in soggettiva Lands of Lore: Guardians of Destiny. Ma non è in Westwood che il progetto di questa – infinitamente più ambiziosa – trasposizione del mondo di
Blade Runner è nato.

Immersi in quel grande potente riflusso di immaginario cyberpunk, assorbivamo qualsiasi riflesso di quelle atmosfere ci versassero in retina
Il
film di Scott aveva lasciato dietro di sé un lungo
strascico fatto di debiti e diritti sparsi tra tutta una serie di entità distinte, come la società di distribuzione
The Ladd Company e la Tandem Productions. La Tandem chiude i battenti nell’82, una fra le tante vittime della “
maledizione di Blade Runner” (pellicola che, come noto, non ha portato molto bene ai marchi che hanno pagato per il product placement e a tante altre società coinvolte), ma i suoi proprietari,
i produttori Bud Yorkin e Jerry Perenchio, si sono affrettati a mettere le mani su (parte di) quei diritti, creando la
Blade Runner Partnership per gestirli. E per cercare di spremerne un po’ di soldi, hanno proposto in giro questa idea di un gioco ufficiale su Blade Runner a, beh, praticamente chiunque. Bussano alla porta di Sierra, Activision, Electronic Arts, e alla fine si accordano con
Virgin Interactive, che molla la patata bollente a Westwood Studios. Il problema è che il suddetto ginepraio di diritti persiste e riguarda molti aspetti del film stesso.
Westwood non potrà utilizzare, salta fuori, sequenze e campioni audio della pellicola. Niente filmati, niente brani di Vangelis. Va tutto creato o ricreato nota per nota (come avverrà per la colonna sonora di Frank Klepacki) da zero. L’idea da proporre a Yorkin viene sviluppata in meno di una settimana, perché, perdonate la battuta facile, si corre sul filo di un rasoio e Yorkin ha una paura matta che in quel caos in cui non si sa chi ha firmato cosa, salti fuori qualcuno a far fermare tutto, avendone titolo.
Westwood riesce a coinvolgere il compianto Syd Mead per il design e numerosi attori del film per dare nuovamente la voce ai personaggi
Per creare il gioco ci si prende fortunatamente il tempo necessario, e Westwood fa di tutto per realizzarlo come si deve. Non avendo gli spezzoni del film, si cerca di tirare a bordo chi lo aveva reso possibile.
Scott e Harrison Ford non sono interessati (l’attore era peraltro nel bel mezzo di una sorta di guerra personale con l’industria del videogioco, che secondo lui si concedeva troppe licenze nello sfruttare il materiale dei film), ma Westwood riesce a coinvolgere il compianto
Syd Mead per il design, e chi si è occupato dei set del film.
La Los Angeles di Deckard viene ricreata usando i voxel, anziché i poligoni da dare in pasto agli acceleratori 3D come facevano gli altri, e Westwood cura i suoi personaggi, con un numero di sequenze in motion capture considerato semplicemente folle per i tempi (oltre 20mila) e con le voci di tutti gli interpreti originali del film che riesce ad accaparrarsi:
Sean Young (Rachael), James Hong (Hannibal Chew), Joe Turkel (Tyrell), Brion James (Leon), William Sanderson (Sebastian). Il conto, alla fine, è il doppio del previsto, ma il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Nella versione italiana del gioco si sovrappone un ulteriore livello, perché Ray ha la voce di Michele Gammino (Deckard/Harrison Ford nel film) ed è della partita anche Sandro Iovino (Roy Batty/Rutger Hauer). Il radiodramma RAI di Blade Runner, nel 2006, sempre puntando su quelle voci avrebbe completato meravigliosamente il delizioso cortocircuito mentale. Una curiosità: la voce originale di Crystal Steele è di Lisa Edelstein, la futura Cuddy di Dr. House.
Era un titolo diverso da altre avventure punta e clicca, Blade Runner, capace com’era di far esplodere all’improvviso qualche evento non dandoti mai il modo di prevedere cosa sarebbe accaduto
Era un titolo diverso da tante altre avventure punta e clicca, Blade Runner, in
quelli che sembravano gli anni del crepuscolo del genere. Non sarebbe stato così, ma tanto allora non c’era tempo o modo per preoccuparsene, perché
la storia di Ray McCoy era coinvolgente come poche per chiunque avesse a cuore il film o semplicemente quel tipo di ambientazione. Quel
mood piovoso, malinconico e pieno di luci al neon e maxischermi che tutto il mondo dell’entertainment sembrava volerti inoculare sottopelle, attingendo alla
pellicola di Scott, ora non più oggetto di nickname sarcastici bensì metro di paragone, sfruttatissima fonte d’ispirazione. Anche il consueto andirivieni endemico del genere punta e clicca, il dover visitare e rivisitare continuamente gli stessi luoghi alla ricerca dell’
interazione utile per triggerare la fase successiva, qui era funzionale al tipo di narrazione cercato. Far esplodere all’improvviso un qualche evento, in grado di strapparti da quella routine, non dandoti mai il modo di prevedere cosa sarebbe accaduto in seguito.
McCoy, i replicanti, quel massacro di animali; il cacciatore che diventa preda, quando cercano di incastrarlo per omicidio. Quel corrotto del tenente Guzza, quel bastardo di Runciter (nome che rimbomba come ulteriore eco di Dick, da uno dei personaggi centrali di Ubik, ndMario). Soprattutto quei tredici finali diversi, varianti in realtà di tre esiti principali.
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