Bayonetta è ed è stata tante cose. L’ideale di donna di Hideki Kamiya tradotto in pixel e poligoni. La protagonista di un gioco d’azione dallo scarso successo eppure allo stesso tempo così cult. Un Amiibo rilasciato in doppia versione. Ma soprattutto bella, magnifica e senza un’età, come in quel vecchio pezzo degli 883.
La prima volta che ti ho vista, sai. Non era la prima volta che andavo in discoteca di sera, probabilmente nemmeno la prima volta che scaricavo una demo da PlayStation Network. Però è passata un’eternità ormai e ricordo bene il casino che c’era: nei forum, sui siti specializzati, nelle chiacchiere tra appassionati. Hideki Kamiya che torna sulla scena del delitto, quel delitto che è stato strappargli l’IP di Devil May Cry dalle braccia dopo il primo capitolo. Un nuovo gioco d’azione, ma d’azione davvero, non come quei Dante’s Inferno o God of War 3 che sarebbero dovuti uscire di lì a poco, ultimi scampoli di un modo adolescenziale di intendere l’hack and slash che non potevano essere che l’equivalente del metadone per chi bramava il ritorno dello Stylish Action. Nel gennaio del 2010 Bayonetta arriva anche sugli scaffali alle nostre latitudini. Ma in realtà è già entrata nei begli incubi di noi (non più così) piccoli il mese prima con una demo di due livelli scarsi.
GLI ANNI
Bayonetta è soprattutto una storia di persone alla ricerca del loro passato. È alla ricerca del suo Cereza, che non si ricorda nemmeno di chiamarsi così. Ma lo è soprattutto il team di sviluppo. Primo tra tutti Hideki Kamiya, cui Capcom non solo ha tolto il controllo creativo di Devil May Cry, ma chiuso anche quel sogno chiamato Clover Studio. Hideki è costretto a ripartire da Platinum e ad abbandonare il suo stesso passato: non solo Devil May Cry, ma anche Okami, Viewtiful Joe, Resident Evil. Tutto questo in Bayonetta troverà spazio. Chi più chi meno, perché se è impossibile non rivedere Amaterasu nella forma pantera della protagonista alcune citazioni sono più criptiche, si affidano alla nostra attenzione chiedendoci di ricordare dove abbiamo già sentito “henshin a go-go baby” o cogliere nei nomi delle ex di Luka gli echi di Claire Redfield. Bayonetta è carico di citazionismo, specie rispetto al passato di chi ci sta lavorando. Forse il motivo è che il Team Little Angels dietro lo sviluppo del gioco ha bisogno di ricordare – di riscoprire – di essere stato una generazione prima il Team Little Devils di Dante e Trish. O forse è semplicemente che Hideki Kamiya in Bayonetta mette sé stesso e sé stesso è anche i giochi che ha diretto, Proprietà Intellettuali che sente sue anche se negli atti e nelle carte c’è il nome di Capcom.
Quello che è sicuro, dovessi limitarmi alla banalità dei fatti senza dargli nessuna lettura, è che in Bayonetta c’è tanto di Devil May Cry. È un cordone ombelicale che va oltre l’elenco di citazioni che si trova nelle fan-wiki del gioco, il Bracciale del Tempo che parla chiaramente di Eva e Sparda o il padre di Luka che si chiama Antonio Redgrave. È un mood, una sensazione inesplicabile che diventa ovvia solo pad alla mano. L’abbraccio di qualcosa di familiare che riesce a spingersi più in là di dove arrivava il ricordo, nonostante il ricordo fosse idealizzato e Devil May Cry nella tua testa suonasse ancora perfetto. E invece perfetto è Bayonetta. È facile vederlo adesso, a vent’anni da un primo Dante che quei vent’anni li sente tutti e a dieci da una Cereza fresca come se fosse finita sugli scaffali l’altro giorno. Quel porting malfatto per PS3 è solo un amaro ricordo, buono per ribadire quanto fosse complicato programmare sulla più boriosa delle macchine Sony rispetto a com’era la vita su Xbox 360, ma non certo per misurare il valore di una produzione. È una questione di feeling che ci ricorda che i videogiochi vanno giocati, non basta guardarli e giudicarli perché la protagonista è di sesso femminile e/o più lunga è la combo più della sua pelle rimane scoperta. E quando si gioca, beh, Bayonetta è sontuoso. Un po’ imbranati e un po’ intimiditi all’inizio si entra infine in risonanza con il battle system. È un gioco di incastri, da costruire alternando il tasto dei calci a quello dei pugni, due set di due armi da sfruttare in tempo reale per costruire combo sempre più remunerative. Bayonetta va oltre l’indicazione dello stile, oltre la semplice ricompensa in endorfine inaugurata da Dante 8 anni prima. Più è alto il punteggio più Halo si raccolgono, valuta in-game da guadagnare picchiando che poi va spesa per sbloccare nuove tecniche, nuovi accessori, nuovi bonus. Valuta in-game però destinata a non tradursi mai in yen per SEGA e Platinum Games.
CON UN DECA
Parlare di soldi spoetizza sempre il discorso. Il denaro è vile e si sposa male con l’idea romantica che abbiamo del videogioco, che per noi è arte o al massimo artigianato da retrobottega. Per chi i videogiochi li fa però questi sono anche un prodotto, e un prodotto che nei suoi primi tre mesi di vita non supera il milione e mezzo di copie vendute su una base installata di oltre cento milioni di unità non è semplicemente un buon prodotto. Quindi da una parte ci sono i deca portati a casa dal punto di vista della critica. Il 40/40 di Famitsu, le 5 stelle su GamesRadar. Dall’altra ci sono altri deca, quelli che il pubblico nonostante tutto decide di non spendere. C’è un’altra cosa che in effetti ha caratterizzato il passato (all’epoca) recente di Hideki Kamiya: il flop commerciale. È quasi come se il tentativo di riconnettersi a quel passato abbia passato la maledizione di Clover Studio a Platinum Games. Succede in parallelo la stessa cosa all’altro ex enfant terrible fuoriuscito da Capcom – da Clover – per fondare Platinum Games: dopo God Hand, Shinji Mikami prova a ripartire con Vanquish, nella sua testa una produzione più in linea con quello che è lo zeitgeist della settima generazione. Va anche peggio che con Bayonetta, cementando un’immagine di belli ma quasi mai vincenti del videogioco, delle Anna Kournikova che al posto delle racchette impugnano dev kit. E insomma non sembra ci siano proprio le premesse per un sequel. Platinum Games a dispetto del suo nome non è Re Mida, non è quell’azienda in grado di tramutare l’hype in copie vendute semplicemente toccando col suo logo una copertina. Bayonetta stesso non ha venduto bene, per quanto sia andato molto meglio di altri progetti della casa. Dare luce verde ad un ipotetico Bayonetta 2 vorrebbe dire lasciare la sorte al cielo. Fortunatamente per noi tutti “lasciare la sorte al cielo” è la traduzione di Nintendo.
bayonetta sembrava aver portato con sé la maledizione di Clover Studio, quella secondo cui a giochi apprezzatissimi dalla critica non corrispondono successi di vendita. Per fortuna poi è arrivata Nintendo
A dispetto di tutto siamo arrivati a 92 giorni da Bayonetta 3. Nel mentre sono passati più di dieci anni e dello Stylish Action sul mercato resta davvero poco. Quel poco che c’è deve tanto a Bayonetta. Sì, anche Devil May Cry alla fine, perché la parentesi gaijin di Ninja Theory riprendeva a piene mani da Kamiya e Hideaki Itsuno, che Kamiya l’ha sostituito a partire da Devil May Cry 2, da Ninja Theory ha dovuto per forza di cose riprendere. Magari andrà male anche questa volta, ma per chi c’è da quella meravigliosa demo dalle performance indecenti su Playstation 3 tutto questo è ai confini della realtà. È la vetrina di un negozio in centro da cui vedi all’improvviso un viso noto. E ti chiedi se qualcuno ti ha detto mai cosa sei stata tu per noi.