Musica da giocare: i menestrelli del gameplay - Speciale

Le note sono solo sette. I tasti su un controller, dieci. È musica, è matematica (in fondo non è la stessa cosa?). Le combinazioni dovrebbero essere finite. E allora perché i videogiochi riescono ancora a sorprendermi con suoni e idee sempre nuovi?

The Last of Us Parte 2

C’è della poesia in quel famoso aforisma per cui la struttura alare del calabrone non è adatta al volo ma non lo sa e, non sapendolo, vola lo stesso. La scienza l’ha debunkato, rovinandolo per sempre con la prosaica banalità dei fatti. Se il calabrone vola deve poter volare, il rasoio di Occam impone che siano sbagliati i calcoli. Eppure anche la più spietata delle logiche deve arrendersi all’evidenza dei fatti. Le note sono solo sette, e ogni nota successiva moltiplica di nuovo per sette le possibilità. Ogni passo sullo spartito eleva alla potenza le possibilità, ma rimangono un numero finito. La musica evidentemente lo sa, perché la musica è matematica. Ma semplicemente non gli interessa, perché lo spartito non è che una sineddoche di qualcosa fatto di esecuzione e momenti ed emozioni, e dallo stesso spartito a coordinate diverse nello spazio e nel tempo nascono musiche diverse. Se non ci credi, beh, chiedilo a Ellie prima di iniziare e dopo aver finito The Last of Us Parte II.

THIS IS THE RHYTHM OF THE GAME

In principio era il ritmo e il ritmo era presso PlayStation, il ritmo era PlayStation. Con PaRappa the Rapper la musica – per quella che forse è la prima volta – smette di essere solo accompagnamento e diventa gameplay puro, nella forma ancora un po’ embrionale di tasti in sovrimpressione da premere a tempo. Col tempo cambieranno suoni, colori e piattaforme, i tasti frontali di PS2 ci trasformano in dei Guitar Hero, su PSP il sound si fa più tribale con Patapon, più j-pop con Project DIVA.

In principio il ritmo era PlayStation: forse per la prima volta in assoluto, con PaRappa the Rapper la musica smette di essere solo accompagnamento e diventa gameplay puro

È quasi banale far iniziare questo spartito dai Rhythm Game, parentesi ludiche in cui il giocato è in un certo senso suddito del suonato. Il naturale passo successivo è portare le due cose allo stesso livello. Il gioco non è più suonare, è il giocare che produce suono, posiamo lo strumento per diventare i veri direttori d’orchestra, l’anno di grazia non è più il 1996 di PaRappa ma il 2013 di quel DmC Devil May Cry dove più sale lo style meter più sonorità si aggiungono alla soundtrack.

Il 2013 dei livelli musicali di Rayman Legends, di quelle folli Eye of the Tiger mariachi e delle Black Betty suonate raccogliendo Lum e fracassando nemici. Il 2013 di Sound Shapes, in realtà uscito l’anno prima su PS3 e Vita ma riproposto al debutto di PS4 l’anno dopo, ogni set di livelli che diventa un album firmato da artisti come Beck, Guthrie, Deadmau5. È il platform, molto spesso quello a due dimensioni, la valvola attraverso cui la musica si sfoga in meccanica di gioco. Succede ancora oggi dieci anni dopo, quando Vectronom decide di attribuire ad ogni azione del giocatore – ad ogni passo di danza a schermo – un corrispettivo in forma d’onda, quasi un invito giocare l’opera di Ludopium senza il senso della vista, se non fosse per i suoi colori. Quando nel The Messenger di Sabotage Studio la OST non cambia solo a seconda della linea temporale passando da 8 a 16 bit e viceversa, ma anche ovattandosi quando il personaggio finisce sott’acqua.

GRAND TIME CAPSULE

Quando si balla non tutti i passi sono necessariamente in avanti. Non tutto deve essere usare il sonoro come meccanica di gioco. Il passo può essere anche di lato, non legato all’elemento ludico ma alla rappresentazione del suo contesto, finalizzato a riprodurre e riproporre epoche distanti quanto gli 8-bit di The Messenger ma, in un certo qual modo, più vicine grazie a Hollywood e ai dischi in vinile dei nostri vecchi. Qualche fermata dopo il ‘96 di PaRappa i videogiochi metabolizzano il 3D.

Secondo i The Buggles il video avrebbe ucciso le radio star: la (circa) Miami a metà degli anni ‘80 di Vice City dimostra esattamente il contrario

Lo metabolizza Gran Theft Auto, e di conseguenza anche la sua musica assume una tridimensionalità inedita. Non c’entrano gli assi x, y e z, è una questione temporale. Secondo i The Buggles il video avrebbe ucciso le radio star: la (circa) Miami a metà degli anni ‘80 di Vice City dimostra esattamente il contrario usando proprio le radio star per dare dignità al video, rendere davvero tridimensionale quegli anni ‘80 e farli uscire dallo schermo. È una capsula del tempo, di quelle che quando le riapri trovi Working for the Weekend, Africa, Wanna Be Startin’ Somethin.

Fino a quel momento il concetto di colonna sonora non originale era stato appannaggio esclusivo dei videogiochi sportivi, al punto da poter identificare l’anno di un capitolo di FIFA dalla traccia che ne accompagnava i menu. Vice City in un certo senso fa il lavoro contrario, segnando la strada per tutti i mondi aperti che verranno e che inevitabilmente verranno condizionati anche dal loro accompagnamento musicale. E non solo, perché il mezzo radiofonico non è solo musica e a un certo punto si fa verbo, declinandosi in talk e podcast che diventano un modo intelligente di riempire le sessioni di roaming facendo allo stesso tempo un lavoro di world building che va al di là della scaletta musicale.

Il mezzo radiofonico non è solo musica e a un certo punto si fa verbo, declinandosi in talk e podcast che riempiono intelligentemente le sessioni roaming facendo anche un lavoro di world building

È la tendenza di oggi, testimoniata dagli Spider Man di Insomniac, ma anche dalle trasmissioni pirata di Radio Free Oregon in Days Gone o da quello che è probabilmente uno dei layer narrativi più riusciti di Golf Club Wasteland, dove è proprio una stazione radio – Radio Nostalgia From Mars – a testimoniare il disagio esistenziale di chi si è pentito d’essere andato a vivere su Marte e vorrebbe tanto morire su quel che resta della Terra. Non è solo world building, non si limita ad essere contesto come il podcast di J. Jonah Jameson. Radio Nostalgia From Mars racconta le storie di chi ha dovuto lasciare il pianeta e come, ricollegandosi ai livelli attraverso cui si gioca questa partita di golf senza nessun motivo e a volte addirittura anticipandoli per lasciare a chi gioca il compito di unire i puntini.

THERE’S NO PRETENDING

Ma per ogni tendenza esiste sempre una voce fuori dal coro. In questo caso è una non-voce, la scelta di abbracciare il silenzio e affidarsi in massima parte solo al rumore dei passi che invadono una natura lasciata incontaminata, salvo poi degli interventi di vera e propria regia acustica ad evidenziare i momenti topici dell’esperienza. Le note di Silent Poets che irrompono dagli altoparlanti fino a quel momento muti non appena si intravede Port Knot City, l’armonica portata alla bocca per suonare la ninna nanna al BB. Death Stranding parla tanto per silenzi, ma è proprio l’assenza di suono a sottolineare i momenti in cui è presente, fino a quell’ultima consegna finale dove ogni nota del BB’s Theme è una coltellata, quasi come se le orecchie assuefatte ormai al vuoto rifiutassero di dover sentire tanto dolore.

Death Stranding parla tanto per silenzi, ma è proprio l’assenza di suono a sottolineare i momenti in cui è presente

È di nuovo l’idea che cambiando le coordinate spazio-temporali le stesse note possano assumere significati diversi. Opposti, a sottolineare quello che abbiamo giocato – quello che abbiamo vissuto – e a volte anche quanto abbiamo perso scegliendo questa forma d’arte performativa che chiamiamo videogioco. È la chitarra di Ellie che accompagna la ragazza e noi con lei per tutta la seconda parte di The Last of Us, quasi fosse uno di quei mini-giochi aggiunti come diversivo per aggiungere artificiosamente longevità all’esperienza. E invece una ratio c’è, ma diventa chiara a cose fatte, quando ormai è troppo tardi e sappiamo che anche a voler ricominciare il gioco non c’è possibilità di intervenire sulle vicende perché l’unico vero libero arbitrio che c’è concesso è spegnere il computer e andare a dormire, come in quel vecchio gioco di LucasArts.

Parliamo troppo poco di musica e sonoro nei videogiochi. La grafica è la prima cosa che si percepisce una volta inserito il disco, biglietto da visita di un’esperienza fatta di pixel e poligoni. O almeno è così che siamo abituati a percepirla, perché a quei pixel e a quei poligoni riusciamo in qualche modo a dare sostanza perché ne vediamo la forma. L’audio però è il canale immediatamente successivo, un demiurgo condannato all’invisibilità quando fa bene il suo lavoro, dato per scontato quasi fosse il partner di lunga data che poi in effetti è. Lo chiamiamo videogioco, parliamo di game design, attribuiamo significati a meccaniche e dinamiche. Eppure tutto questo sarebbe innaturale, se oltre ad avere una forma non avesse un suono. E quando è il suono a diventare parte di quello che è il linguaggio di un’opera il risultato non può che trascendere la logica. Sette note e dieci tasti non possono sperare di essere abbastanza per descrivere tutto questo.

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