La colonna sonora non è più un elemento accessorio: è diventato anzi un nuovo stimolo a spendere soldi su Amazon per trovare delle cuffie decenti con cui isolarsi
La Woodstock dei “giochini”, l’anti-moda che addenta al collo il mainstream, come Crypt of the Necrodancer fa con i roguelite/dungeon crawler tanto in voga da 10 anni abbondanti a questa parte, trasformandoli in un musical esilarante e perfettamente a tempo, coreografico in tutte le sue componenti, totalmente dipendenti le une dalle altre. Praticamente un orologio virtuale. Muoversi a tempo, vedere i nemici che fanno lo stesso, il pavimento luminoso che pulsa sotto i nostri piedi. La morte del vecchio concetto giornalistico che voleva i giochi dissezionati e giudicati per “grafica”, “sonoro” e “gameplay”, sostituendoli con la sola e fondamentale “sinestesia”. 10/10, lode e bacio accademico. Esattamente come fa Sayonara Wild Hearts affidandosi alle composizioni di Daniel Olsen e Jonathan Eng, a una progressione su binari e alla voce angelica di Linnea Olsson per raccontare una storia che vibra alle frequenze elettro-sinfoniche di CHVRCHES, Lorde, Royksopp, celebrando l’arcade, Rez, OutRun, i colori della synthwave, utilizzando le icone per diventarlo a sua volta.
Il primo pop album videoludico, forse il futuro stesso della musica, nato per diventare tutt’uno con l’interattività e l’accompagnamento estetico, antitesi di Guitar Hero e simili, rivelandone la loro natura di cover band, nostalgia in un pub di periferia.
HIGHWAY STAR
Perché se si parla di scheletro ludico, le due opere non sono così distanti, cambia solo la direzione del flow, una va controcorrente generando una suggestione da palcoscenico, dall’altra ci si fa trascinare verso cascate sensoriali, come essere immersi nel pubblico durante un live. Due corsie della stessa Autobahn, strada a scorrimento velocissimo tra le stelle, nel Deep Purple galattico di Thumper, dimostrazione che anche la vecchia scuola può essere rinnovata. Metallo iridescente, geometrie astrali, elettronica abissale, linee di basso talmente profonde da illudere i timpani di trovarsi sott’acqua, figure demoniache all’orizzonte capaci di assorbire tutta la luce dell’universo. Con queste immagini che urlano in testa Brian Gibson, ex lead artist di Harmonix dal 2001 al 2015, decide di diventare indipendente, fondare Drool insieme a Marc Flury e regalare un po’ di vertigine al mercato.
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