Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant’è profonda la tana del Bianconiglio.
Talvolta siamo così presi da apprezzare, criticare o demolire un titolo, divertendoci poi a scriverci sopra, che alcuni piccoli dettagli – così insignificanti – se estrapolati dal contesto e analizzati sotto una nuova luce, regalano ricchi significati grazie a quali si riesce anche a ribaltare un giudizio su un’opera, o magari vederla con occhi diversi, più consapevoli, aperti al cambiamento. Non è certo il caso dei due capitoli di The Evil Within, nati dalla perfida e brillante mente di Shinji Mikami che ha raccolto, come capita spesso, fedeli adoratori e severe critiche. In questa sede non intendo esprimere giudizi veri o presunti, però, ma approfondire un tarlo che ha accompagnato la mia avventura – forse meglio dire esperienza – con The Evil Within e che ha trovato una sua reale concretizzazione, tramutandosi in una totale devozione verso il franchise, solo nel secondo capitolo, quando quel piccolissimo dettaglio ha trovato le sagge mani di chi è riuscito a collocarlo con saggezza nel world building: lo specchio.
UNA CASUPOLA ALL’ORIZZONTE, QUALCOSA A CUI NON SI PRESTEREBBE ATTENZIONE, DI NORMA. MA UN SUONO CI ATTIRA
Avevo dieci o undici anni e al saggio di fine anno l’insegnante di pianoforte mi attribuì proprio quella sonata da eseguire davanti al folto pubblico di genitori dall’aria stanca, con fotocamere compatte in mano e continuo sventolare del programma per farsi un po’ d’aria nella grande sala priva di condizionatori a metà luglio. A margine della rievocazione del ricordo, la sonata di Debussy è universalmente riconosciuta come una sequenza di note atte a consolare, rassicurare l’ascoltatore. Dopo un continuo scorrere davanti ai nostri occhi di sangue e mostrusità, e la costante, opprimente carenza di proiettili, quella piccola stanza è l’ambiente più confortante del mondo. La musica nell’aria proviene però da un oggetto, non un pianoforte. Sul muro c’è uno specchio dal vetro rotto, e un abbagliante fascio di luce lo attraversa. La musica viene da lì. Sebastian attraversa lo specchio.
Il resto più o meno è conosciuto: attraverso lo specchio si riesce ad accedere a una sorta di safe room dove poter potenziare il nostro protagonista, ottenere oggetti e recuperare preziosi documenti che approfondiscono la storia del titolo. La narrazione, volutamente spezzettata, fuori di testa e assolutamente devota a una venatura sadica, impedisce una piena consapevolezza di cosa sta accadendo nel mondo, o almeno, di capire che ci troviamo in un altro mondo, un realtà artificiale, qualcosa in cui siamo stato rinchiusi e lo specchio è l’unico canale di uscita (momentanea) per riorganizzare idee ed equipaggiamento.
Continua nella prossima pagina…
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