Tra il dire e il fare

È il 2009 e Andrew Ryan ha scelto qualcosa di diverso. Di impossibile. Ha scelto di avere tutti i diritti sul sudore della sua fronte, a dispetto di quello che predicano l’uomo di Washington, quello in Vaticano e quello di Mosca. Avanti veloce fino al 26 marzo 2013: termina tra lacrime e sangue lo sviluppo di Bioshock Infinite. Nella mente di tutti è chiaro che Ken Levine ha scelto sì qualcosa di diverso, ma diverso da quello in cui credeva il suo Andrew Ryan.

Dissonanza ludo-aziendale crunch

I videogiochi sono macchine complesse. L’arte in cui confluiscono le altre sette arti, opere che contano migliaia di braccia e di menti, milioni di euro/dollari/yen a sostenerne il peso. Siamo esseri umani, e tutte le macchine complesse che abbiamo mai realizzato ne pagano il prezzo con il compromesso. I sogni dei tanti che a queste macchine danno una forma si infrangono contro la sterile realtà dei fatti, solo per sopravvivere quel tanto che basta a vedere i loro stessi cocci diventare propaganda. Succede anche nei videogiochi ed è inevitabile che sia così. Non è nemmeno un discorso così industriale, in realtà: siamo portati a credere che sia un discorso che riguarda soltanto i BioShock e i Call of Duty mentre l’indie continuerà a salvarci tutti, a rappresentare tutta la joy de vivre di un’industria fin troppo consapevole di essere industria. L’ultima doccia fredda in questo senso è arrivata qualche giorno fa, a seguito di un’inchiesta portata avanti dal canale People Make Games.

Dopo il successo di Monument Valley (di cui è stato il Lead Designer) Ken Wong fonda Mountains. Il primo progetto del neonato studio incontra subito il favore di Annapurna Interactive, il publisher “indie” che ormai tutti associamo a quella produzione dei buoni sentimenti che è ben riassunta da Sayonara Wild Hearts. Florence è la storia dell’omonima ragazza e di come un giorno, quasi per caso, sfugge alla sua routine incappando in una relazione sentimentale che nonostante tutto la porterà a inseguire il suo sogno di diventare una pittrice. È un gioco che parla di sogni, di come si possano realizzare anche seguendo strade non lineari a patto che si sia disposti a percorrerle. Un titolo capace di ispirare tantissimi ragazzi di Melbourne, dove Wong è tornato proprio per aprire Mountains. Un dipendente racconta come capitasse di tanto in tanto di sentire le voci delle persone che passavano davanti all’ufficio, parlando di come Florence fosse nato dentro quelle mura. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che il clima dentro lo studio fosse completamente agli antipodi rispetto al messaggio della sua (ad ora) unica opera.

A UN GIOCO DAI TEMI DELICATI E SENSIBILI SI CONTRAPPONE LA REALTÀ DELLO STUDIO, FATTA DI ABUSI EMOTIVI, E DI ANNAPURNA CHE SUGGERISCE DI RICOMINCIARE ALTROVE, CON NUOVI SVILUPPATORI

Dal report di People Make Games emerge un Ken Wong emotivamente abusivo. Una persona capace di distruggere i suoi dipendenti, al punto che ad un certo punto diventa necessario istituire una safe word per le discussioni col capo. Quando qualcuno dice “pausa” il discorso deve immediatamente interrompersi, perché Ken sta andando oltre. Secondo un dipendente “non si trattava di qualcuno con cui non sono andato d’accordo, non si trattava di un brutto lavoro, si trattava di una persona davvero crudele in una posizione di potere a cui piaceva farmi sentire male in modo da sentirsi meglio”. Nonostante la politica della safe word ad ogni modo la situazione degenera, finché Annapurna non è costretta ad intervenire su insistenza dei dipendenti di Mountains. La risposta del publisher, di nuovo, è in completa dissonanza con la narrativa che Annapurna ha costruito di sé stessa attraverso la pubblicazione di opere come Gone Home, Telling Lies o I Am Dead. La posizione di Annapurna è chiara: è impossibile sviluppare un videogioco senza una forte personalità in cima alla catena di comando. Viene suggerito a Wong di trasferire lo studio in una nuova città e di ricominciare con dei nuovi dipendenti, magari freschi di studi in modo che non abbiano particolare esperienza o aspettative per il mondo del lavoro. 

Un videogioco che capisce così bene, i sentimenti nato dall’idea di una persona che non capisce i suoi.

Riavvolgiamo il nastro al 2013. Per parlare della dissonanza ludo-aziendale tra Ken Levine e quella che è la serie che lo ha lanciato nella stratosfera delle rockstar dell’industria va scomodato il libro di filosofia. In particolare alla voce Ayn Rand, fautrice della teoria filosofica dell’Oggettivismo. L’Oggettivismo rivendica il diritto dell’essere umano ad esistere senza l’obbligo di sacrificarsi in nome di una morale, un’idea completamente opposta a quella dell’uomo in Vaticano. Laddove quest’ultimo vive a servizio degli altri e in funzione di Dio, l’oggettivismo di Rand – sposato da Andrew Ryan per la sua Rapture – elimina la “D” e mette al centro della sua utopia l’Io. Non c’è spazio né valore nel sacrificio in nome della collettività. Lo sviluppo di BioShock Infinite richiederà invece il sacrificio personale di gran parte del personale di Irrational Games.

Mikey Soden, all’epoca assistente di produzione per Infinite, ricorda un aneddoto che rende bene le proporzioni di quanto sia costato agli sviluppatori il gioco. Durante la festa per l’entrata in fase gold del gioco Soden è in fila per prendere dei drink, e sente casualmente le mogli di due suoi colleghi parlare di come fosse bello riavere finalmente i mariti a casa, dopo un anno in cui si sentivano come divorziate dal coniuge. “Ho guardato mia moglie e le ho chiesto se si sentisse allo stesso modo. Mi rispose di si”. Tara Voelker, che per Irrational in quegli anni era la responsabile QA, ricorda invece che il giorno in cui fu tagliata la funzionalità di rimappatura dei tasti perché non sarebbe stato possibile testarla piombò nell’ufficio di Rod Fergusson per poi scoppiare in lacrime. Fergusson, all’epoca vicepresidente esecutivo per lo sviluppo, non poté fare altro che offrirle un wiskey e lasciarla sfogare.

LA ROTTURA FRA KONAMI E HIDEO KOJIMA È GIÀ ENTRATA NELLA STORIA DEI VIDEOGIOCHI A CAUSA DELL’ATTEGGIAMENTO DA DAMNATIO MEMORIAE DEL PUBLISHER

Tutto il mondo è Paese, quando si parla di certe storture. Un paio di anni più tardi Hideo Kojima sta per consegnare agli scaffali quello che rimarrà il suo ultimo lavoro in Konami, oltre che il suo ultimo Metal Gear. Un’opera a cui i tempi di uscita impongono la rimozione del terzo atto, di cui rimane solo qualche traccia nei materiali rilasciati con la Collector’s Edition del gioco. Ma tra le cose rimosse su mandato di Konami non c’è solo la missione nel Regno delle Mosche, che avrebbe dovuto chiudere l’arco narrativo di Eli/Liquid Snake: è il nome stesso di Hideo Kojima ad essere rimosso dalle copertine del gioco, poco prima che queste vengano spedite effettivamente nei negozi di tutto il mondo.

Non è che una delle tante ritorsioni in un lungo e doloroso divorzio tra Kojima e la sua casa madre, dove a noi giocatori non resta che recitare il ruolo dei figli presi in mezzo da questo Tsunami. Nel tentativo di eliminare ogni riferimento a Kojima Production dai suoi prodotti Konami cancella anche la demo di P.T., quello che sarebbe dovuto essere il grande ritorno di Silent Hil, da PlayStation Store. Non è nemmeno più possibile riscaricarla, anche per chi l’avesse fatto in precedenza. Le uniche istanze del Playable Teaser entrato nella storia del medium per i motivi sbagliati sono le PS4 su cui è ancora installato, ancora oggi acquistabili da qualche rivenditore su eBay ad un prezzo molto più alto del loro valore nominale. In tutto questo Metal Gear Solid V voleva parlare soprattutto di libertà di parola, di come senza una lingua franca sia impossibile esprimersi e del dolore dato dall’impossibilità di comunicare.

Quegli ultimi mesi in cui Hideo Kojima è obbligato dagli accordi di non divulgazione presi con Konami ad un silenzio stampa assordante, con addirittura l’impossibilità di partecipare ai TGA del 2015, sembrano un ultimo tentativo di meta-narrativa da parte del designer giapponese. Il videogioco che si manifesta nella vita di tutti giorni, erompendo nella vita – nella sua vita – per rendere il suo messaggio tangibile al di là del gameplay. Geoff Keighley spenderà un minuto del suo show sulla situazione, per far sentire la sua vicinanza a Kojima, rimasto a Tokyo. Ed è forse proprio qui che nasce l’idea dei legami che porta a Death Stranding, ma come si suol dire è un’altra storia…

Quella che invece fa parte di questa storia è la dissonanza ludo-aziendale degli ultimi due capitoli di Assassin’s Creed. Sia Assassin’s Creed Odyssey che Valhalla consentono al giocatore di scegliere il sesso del protagonista. Questo non ha un impatto sulla trama – dialoghi e finanche le romance possibili in-game rimangono le stesse in ogni caso – e per quanto riguarda Valhalla c’è anche la possibilità di non scegliere, di lasciare che sia l’Animus nel corso della partita a rendere Eivor ora maschio ora femmina. Queste soluzioni funzionano bene quando si parla di videogioco, ma per tutte le opere derivate della serie Ubisoft deve comunque scegliere un sesso canonico per i protagonisti dei due titoli. E in entrambi i casi la scelta ricade sul doppio cromosoma X, preferendo Kassandra ad Alexios e una Eivor più vicina all’immaginario delle valchirie. Diventa chiaro nel corso del 2020 che si tratta di una scelta assolutamente di facciata, in cui diversi degli executive dell’azienda non credono.

La tesi dei dirigenti Ubisoft, con in testa Serge Hascoët (all’epoca Chief Creative Officer, poi dimessosi a seguito dello scandalo che ha colpito l’azienda nel 2020), è che i videogiochi con protagonisti femminili non vendono. È questo il motivo per cui in Assassin’s Creed Origins c’è un’evidente sproporzione tra le ore di gameplay nei panni di Bayek e quelle come Aya, sua moglie. Ed è questo il motivo per cui in Odyssey è possibile scegliere tra Kassandra e Alexios, creando non pochi problemi agli scrittori del gioco perché diventa impossibile caratterizzare due personaggi in modo diverso se poi questi devono risultare intercambiabili. Il marketing degli ultimi due giochi riflette questa idea: nonostante sia Kassandra il protagonista canonico, la Collector’s Edition di Odyssey viene venduta con una action figure di Alexios. Va meglio a Valhalla, dove Eivor riesce ad essere donna anche nell’edizione di pregio del titolo, ma appare invece in versione maschile in tantissimi degli asset pubblicitari dell’opera, inclusa la copertina.

Dissonanza ludo-aziendale crunch

Kassandra sarà pure canonica, ma intanto è Alexios il ragazzo-immagine.

Il caso più recente – andando ad escludere il report di People Make Games – è sicuramente quello di Cyberpunk 2077. Le condizioni in cui i dipendenti dell’azienda hanno dovuto completare lo sviluppo dell’opera sono a questo punto state più che discusse, dopo i report del solito Jason Schreier (che è poi la persona che ha divulgato anche le informazioni utilizzate per parlare di Irrational Games e Ubisoft). Orari di lavoro anche di 12 ore, l’obbligo di lavorare negli ultimi mesi anche il sabato sapendo che in caso di rifiuto le ore extra sarebbero state fatte scontare a un altro collega. In tutto questo un management che spesso e volentieri pur di rassicurare gli investitori parlava apertamente di quanto fossero dediti alla causa e disponibili al sacrificio i dipendenti, quasi vantandosene salvo poi dover chiedere scusa internamente attraverso email.

SEMBRA QUASI ASSURDA LA DISSONANZA FRA I TEMI DI CYBERPUNK 2077 E CIÒ CHE ACCADEVA NEGLI UFFICI DI CD PROJEKT RED

Qualcuno la definirebbe la vera faccia del capitalismo, quello zeitgeist corporativo tipico delle Zaibatsu immaginate da William Gibson. Tipico anche dell’Arasaka, la corporazione che getta la sua ombra lunga su tutta Night City e contro cui V si ritrova a combattere mentre ne testimonia gli abusi come nella migliore delle tradizioni cyberpunk. È ironico, pensare a quegli sviluppatori costretti in azienda a realizzare un videogame dove una delle tematiche principali è combattere quell’azienda che nega e soffoca le libertà individuali. Con una materia delicata come il cyberpunk cadere in queste dissonanze è quasi inevitabile, si corre sempre sul filo del rasoio come Rick Deckard, sospesi tra la necessità di far quadrare i conti e quella di raccontare una realtà disillusa, dominata da aziende che calpestano chiunque in nome del profitto.

Più in generale dietro ognuna di queste storie di insuccesso gestionale c’è il fatto che siamo esseri umani. Noi che i videogiochi li giochiamo come chi si occupa di realizzarli, di rendere tangibile l’eco di una visione che vive solo nella testa di un manipolo di persone. Siamo umani e in quanto tali fallaci, mentre le opere hanno il potere di trascendere la nostra mortalità. Andrew Ryan non si è trovato a dover gestire un centinaio di persone reali con reali necessità, eppure la sua Rapture ha fatto la stessa fine dell’Isola delle Rose. Non è una giustificazione, non può – non vuole – esserlo. L’unica strada che ci resta superare la nostra fallibilità è quella di avvicinarci alle nostre opere, provare ad esserne all’altezza imparando dagli errori che le hanno rese possibili. Preso atto di questi sacrifici, non ci resta che dargli un senso.

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