Da qualche giorno, Sekiro: Shadows Die Twice, sviluppato da FromSoftware, ha tracciato il traguardo delle dieci milioni di copie vendute. La notizia, per la precisione, è di una settimana fa. Al momento, anche mentre leggete, qualcuno sta acquistando – dopo quattro anni – la sua copia dell’opera più ambiziosa del team nipponico, uno dei progetti che ebbe il grande merito di proporsi dopo uno storico fatto di altrettante conquiste da parte di Hidetaka Miyazaki. Una lama, il Giappone del Periodo Sengoku, un grande spadaccino, soprannominato Ishiin Ashina, un Lupo e un ragazzino che si ritrovano ad affrontare la stessa morte, la resurrezione e il cerchio della vita, rappresentata dal Torii, che divide il regno degli esseri umani da quello del regno divino dei Kami.
Nella religione shintoista, infatti, si crede che esista una profonda armonia fra gli esseri viventi e la natura, tra l’ignoto e cosa si conosce. Con Sekiro: Shadows Die Twice, se ci penso, è stata una scoperta di questo genere: un viaggio nel mistero fatto di sangue, disperazione e tante parolacce dette con poca lucidità. Al tempo ero al corrente che non mi sarei mai trovato davanti a nuovo Dark Souls e tanto meno a opere di questo tenore, e FromSoftware era già stata chiara quando presentò per la prima volta il primo trailer dell’opera giapponese, proposta esattamente come un grande omaggio a Tenchu.
In tal senso, qualcuno pensava sarebbe stato un nuovo percorso del franchise ripensato stavolta da FromSoftware, che di opere complesse, nel suo lungo storico sin dai tempi di King’s Field, ne sa parecchio. Talvolta è una questione di linguaggi adattati al videogioco, spesso di approcci capaci di coinvolgere, spesso di spessore e cultura, e molte volte di sensibilità, specialmente di sensibilità. Se posso sbilanciarmi, anche se questo è uno speciale, Sekiro: Shadows Die Twice è stato il videogioco che mi ha fatto dire “Voglio scrivere di videogiochi”.
C’era ben altro oltre la superficie di una lotta all’ultimo colpo, ben oltre le parole pronunciate da Ishiin Ashina
TRA SEKIRO: SHADOWS DIE TWICE E L’HAGAKURE
Intanto che la sfida si faceva truculenta e brutale, in cuor mio sapevo che l’avversario che avrei avuto davanti sarebbe stato il mio compagno di giochi per i prossimi due giorni. Lo compresi con la Falena, uno dei primi boss dell’opera, e poi con il Gufo, il padre adottivo di Lupo, nonché suo mentore. E parlo in prima persona perché, anche se è stato Lupo ad affrontare tutte queste fiere come un nipponico Dante armato fino ai denti, ero al corrente che lama avrebbe fatto il resto.
Tralasciando le esperienze personali, tuttavia, fu inevitabile pensare all’epoca a un testo giapponese, scritto da Yamamoto Tsunetomo, anche tradotto in italiano “Annotazioni su cose udite all’ombra delle foglie”. Sotto forma di brevi aforismi, scritte e pensieri dell’autore, un nobile samurai, viene descritto il percorso del Giappone Feudale e la casta dei guerrieri più sofisticati e intelligenti dell’epoca, capaci di affrontare da soli gli eserciti più brutali del tempo, anche se parte del tempo lo passarono a farsi la guerra con lo scopo di riunificare il Giappone sotto un unico stendardo.
Sotto forma di brevi aforismi, scritte e pensieri dell’autore, un nobile samurai, viene descritto il percorso del Giappone Feudale
“Disonore su di te, disonore sulla tua famiglia, disonore sulla tua mucca”… Scusate, ho sempre sognato di farci un quote!
Tornando per un momento al contesto, però, ciò che in Sekiro: Shadows Twice viene approfondito è l’immaginario shintoista sotto ogni formula e aspetto, con lievi accenni alla religione buddista. L’Hagakure e la spiritualità, quindi, sono legate le une alle altre da uno stesso comune denominatore: entrambe parlano elevazione dello spirito umano verso altre vette, con la costante ricerca dell’equilibrio e di un buon posizionamento nel mondo attuale. Se non fosse così caotico, però, sarebbe semplice ricercare, ma Sekiro: Shadows Die Twice non è un videogioco facile da comprendere. In realtà, nessun videogioco ideato da Hidetaka Miyazaki è immediatamente comprensibile, ed è proprio questo ciò che funziona all’interno di una struttura ludica omogenea, ben pensata e proposta, in grado di arrivare al suo obiettivo e superare le aspettative che tutti – anche il sottoscritto – si aspettavano con il vincitore del Game of the Year 2020. “Oggi siamo più abili di ieri, domani saremo più abili di oggi. Per tutta la vita, giorno per giorno, siamo sempre migliori”. La prima grande lezione di Sekiro: Shadows Die Twice non è deviare, non è parare, e non è neppure aspettare il momento giusto. È morire.
“Oggi è il giorno in cui,
il pupazzo di neve che si scioglie,
è un uomo vero.”
Queste parole potrebbero parlare di un giovane qualunque scomparso misteriosamente, e invece parlano di un vecchio che ha raggiunto l’età di sessantasette anni durante il Periodo Sengoku. Attraverso gli Haiku, poesie giapponesi che raccontano i momenti più emozionanti nella vita di una persona. Questo approccio, inoltre, venne adottato addirittura da Gabriele d’Annunzio e da tanti altri autori italiani. In Sekiro: Shadows Die Twice, anche se non sbuca fuori neppure un Haiku dai documenti contenuti nelle casupole che Lupo esplora nel suo viaggio, non c’è alcun commento placido e felice, come se il tempo si fosse fermato quando Ishiin Ashina, divenuto un grande spadaccino, riuscì a imporsi con la forza, come tanti signori della guerra ambiziosi e crudeli.
Lo shintoismo, durante l’esplorazione del Monte Kongo, è onnipresente. I monaci, un tempo sicuri di poter raggiungere la pace attraverso la semplicità dei gesti e attraverso le loro parole, si sono fatti corrompere, trasformandosi in ciò che loro stessi combattevano, compromettendo al contempo il cammino di Lupo nella sua ricerca della Lama Mortale, l’unico modo per distruggere una creatura immortale. All’interno di Sekiro: Shadows Die Twice, in tal senso, ce ne sono parecchie, e ognuna è legata al simbolismo, come gli stessi draghi divini che Lupo incontra nel suo percorso.
COMBATTERE FINO ALL’ULTIMO RESPIRO
L’altro lato della medaglia, ben distante dal contesto, dalle ispirazioni e dal messaggio finale portato avanti da Hidetaka Miyazaki, è il game design che si esprime attraverso la costruzione del sistema di combattimento migliore degli ultimi quindici anni. Già, non bado alle parole: la lotta katana alla mano di Sekiro: Shadows Die Twice è esaltate, spinge a migliorarsi e fare in certe occasioni addirittura più di quanto qualcuno immaginerebbe. È uno scontro fatto di deviazione, schivate e rapidità, ma soprattutto di tempismo. Sin dal primo momento, viene insegnato più a deviare che attaccare, e solo in un secondo momento, invece, è spiegato perché è meglio essere offensivi invece che attendisti come in un comune Dark Souls o nello stesso Elden Ring. Una schivata può salvare la vita, ma è una deviazione a stroncarne un’altra, perché minata la postura di un nemico e distrutta la sua guardia, non resta che concatenare attacchi fulminei e improvvisi, martellanti e brutali come non mai.
Una schivata può salvare la vita, ma è una deviazione a stroncarne un’altra
In un’architettura del genere, come è accaduto Lies of P, alcuni boss sono stati semplificati nel corso dei primi due mesi dal lancio – il periodo in cui ci giocai io, proprio in prossimità dell’uscita. Il punto è che non me ne accorsi affatto, perché l’opera è stata talmente ben costruita da essere estremamente impossibile da replicare – con solo Star Wars: Jedi Fallen Order a replicare il sistema di attacchi imparabili, leggibili da un kanji che compariva sopra la testa di un nemico temibile o di un miniboss. In tal senso, a fare molto fu anche la proposta dei boss all’interno dell’opera, significativi e indimenticabili: l’ultimo, Ishiin Ashina, è ancora oggi nei miei incubi peggiori ben più di Melenia di Elden Ring o l’ultimo boss di Quake II – che se giocato a una difficoltà superiore a Normale, è la versione in pixel art dello spadaccino giapponese, armato fino ai denti di fucile mitragliatori e molto altro. Ishiin Ashina, che fu il boss che mise tutti in difficoltà, costrinse in tanti a prendersi addirittura un mese per batterlo. Certo, i suoi attacchi erano letali e aveva pochissime aperture da attaccare, e spesso il segreto era proprio deviare e ricominciare ma a volte, direi molto spesso, non avevo l’accortezza di difendermi accuratamente e non leggevo in maniera tempestiva i suoi attacchi, e le deviazioni erano inutili se non capivo come muovermi.
Penso non esista nemico più assoluto di questo vecchietto che ancora sa come maneggiare una katana… e gli ribolle pure il sangue
Il sistema di combattimento, dunque, era spietato e complesso. Era anche impossibile da apprendere? No. C’erano tutorial evidenti sparsi per i livelli e i migliori maestri erano proprio i maestri che s’incontravano lungo il cammino, pure i più cattivi, come Genichiro Ashina. Battuto e ucciso lui, si aveva la sensazione di poter fare qualunque cosa: quando lo sconfissi la prima volta, fu solo fortuna; abusai così tanto delle castagnole dal braccio prostetico che non mi accorsi che non mi avrebbe sempre salvato la vita. Poi cominciai a deviare, a contrattaccare e a non esitare, e la cosa cambiò radicalmente. Compresi l’opera di Hidetaka Miyazaki quando ancora la Scimmia Guardiana mi faceva a pezzi.
UN CAPOLAVORO CHE SOPRAVVIVE AL TEMPO
Mi piace pensare che di opere come Sekiro: Shadows Die Twice ne escano una ogni dieci anni. Ora, tutti pensavano che sarebbe stato un classico action RPG in salsa FromSoftware ambientato in Giappone, e invece fu l’evoluzione di Tenchu in tutto e per tutto, ma secondo il team giapponese. A distanza di quattro anni dalla sua pubblicazione, un lasso di tempo in cui sono cambiate molte cose, l’opera di Hidetaka Miyazaki è ancora oggi fra le sue produzioni migliori, se non la sua migliore opera autoriale.
Profonda, curata e trattata, la storia di Sekiro: Shadows Die Twice è scritta dal sangue e dal sudore dei suoi giocatori, dai messaggi di sofferenza del multiplayer asincrono – aggiunto dopo qualche mese – e dalla sofferenza di chi ancora deve sconfiggere Ishiin Ashina. La storia di Lupo è ancora oggi da scrivere.