“Time is a flat circle” sosteneva un emaciato Matthew McConaughey nei panni del detective Rust Cohle nella prima (bellissima) stagione di True Detective. L’ho sempre trovata una frase potentissima, capace di imprigionare in cinque parole due concetti densi di significato, come il legame tra il tempo e le nostre percezioni, ma anche la ciclicità degli eventi al cui interno sembrano incastrarsi le nostre vite. E non c’è modo migliore (o forse sì, ma non roviniamo la frase a effetto) per accorgersi di corsi e ricorsi storici del nuovo librone dei britannici di Bitmap Books, Run’N’Gun: A hystory of on-foot shooter.
FILE 020 – Run’N’Gun: A hystory of on-foot shooter
Dove trovarlo: Bitmap Books
Mi rendo conto di essere strano, ma la parte che più amo dei volumi realizzati da Bitmap Books non sono le centinaia di schede dedicate a giochi immortali o dimenticati quasi da tutti. Quelle sono croccanti stuzzichini che spizzico un po’ alla volta, un paio oggi, tre-quattro domani, così che ogni tomo mi accompagna per quasi un anno prima di finire sul ripiano della libreria (rinforzato, visto i pesi). Ciò su cui mi tuffo subito, invece, è la manciata di articoli che si trovano solitamente nella parte iniziale e a cavallo tra le diverse sezioni. SI tratta di spazi in cui il curatore del volume si fa affiancare da numi tutelari del videogioco, lasciando loro carta bianca per raccontare ciò che vogliono. Di solito sono una miniera di spunti di riflessione e anche Run’N’Gun: A hystory of on-foot shooter non fa fortunatamente eccezione.
ALLA SCOPERTA DI DAVE COOK
Dave Cook, autore del volume nonché della gran parte dei testi al suo interno, ad esempio si chiede in conclusione della sua prefazione se gli sparatutto in terza persona come Gears of War o gli FPS tipo DOOM oggi esisterebbero senza i run’n’gun. Domanda di sicuro stimolante, ma giunto al termine della riflessione di Cook, un paio di pagine e iniziata con la descrizione di cosa volesse dire giocare Contra da bambini all’epoca dell’uscita, mi sono reso che in realtà è un altro il genere profondamente debitore nei confronti dei Run’n’Gun, pur avendo seguito tutt’altra traiettoria evolutiva. Vi viene in mente qualche gioco odierno che non si fa problemi a uccidere ripetutamente il giocatore nei primi minuti, che pretende da voi una padronanza quasi assoluta del sistema di controllo, che impone di imparare i pattern dei nemici per avere una speranza di sopravvivenza, che alza l’asticella durante le boss fight con mostri che evolvono trasformandosi durante il combattimento? Potrei andare avanti ancora un bel po’, ma credo si sia capito: il run’n gun, tra le altre cose, è anche l’antenato dei soulslike (almeno per me).
Ma facciamo un passo indietro: cos’è un Run’n’Gun? La risposta è molto meno ovvia di quel che sembri. La più semplice è: un gioco in cui si corre e si spara. Ma tutti i giochi in cui si corre e si spara sono Run’n’Gun? E se si spara, ma non con un’arma da fuoco? Vi basti sapere che Dave Cook ha condotto una serie di questionari online per stabilire il destino di alcuni titoli controversi: stando ai voti, Shinobi non è un Run’n’Gun, mentre Hotline Miami sì. Quando ho letto i risultati, sono subito corso a cercare se nell’elenco dei titoli ci fosse Ghosts ‘n Goblins: non c’è, per mio sommo disappunto. Suppongo che per Cook, la presenza di armi da fuoco in un genere che sfoggia la parola “gun” nella definizione stessa sia una linea oltre cui non si passa. Posso accettarlo.
Cos’è un Run’n’Gun? Eh, bella domanda
DENTRO I RUN’ N GUN
La risposta è arrivata nel giro di una manciata di pagine, dalla penna (ok, ok, le dita sulla tastiera…) di Chad & Jared Moldenhauer, gli autori di Cuphead, gioco che senza dubbio ha contribuito a una nuova primavera del genere. Ebbene, nel loro racconto le regole implicite di Contra e degli altri esponenti del genere assimilate da ragazzi hanno finito per offrire, attraverso un processo che paragonano all’osmosi, un terreno in cui i principi di design del loro gioco hanno potuto svilupparsi. Certo, poi c’è voluto qualche tentativo per sfornare Cuphead, ma le idee, le regole, i limiti erano già tutti lì, ben chiari e precisi senza che ci avessero mai pensato prima.
Un po’ più deludente invece, almeno per me, è l’intervento di Keiji Inafune, mostro sacro nonché uno delle menti dietro Mega Man, che si riduce tuttavia a spolverare aneddoti dei suoi esordi nel settore, che comunque non è certo roba da buttare via, anche perchè si tratta di un paio di facciate in un volume che sfiora le 500 pagine. La qualità del libro inteso come prodotto fisico è sempre di altissimo livello, praticamente irraggiungibile per chiunque. Le schede che occupano la stragrande maggioranza della foliazione sono accompagnate da una fascetta colorata a bordo pagina, dai dati relativi a sviluppatore e piattaforma, oltre che da una o più immagini, a seconda dello spazio dedicato. La novità è la presenza, in alcuni casi, di una riproduzione della copertina del gioco, dettaglio che aumenta considerevolmente il rischio di tuffo nella memoria.
Un po’ più deludente invece, almeno per me, è l’intervento di Keiji Inafune, mostro sacro nonché uno delle menti dietro Mega Man, che si riduce tuttavia a spolverare aneddoti dei suoi esordi nel settore