Diablo 2 Resurrected Recensione

Diablo II: Resurrected

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Nel Limbo di Diablo II – Speciale

Parlare di dannati, anime corrotte e morti è sempre qualcosa che mi entusiasma molto, specie se poi l’occasione diventa ghiotta e c’è di mezzo Diablo II. E se c’è occasione anche di parlare di libri e collegamenti vari, allora la chiacchiera diventa ancora più speciale. È facile, però, dover tirare fuori Dante e poeti della letteratura italiana dal cilindro, com’è già avvenuto in passato. Ecco, lo speciale odierno non intende varcare nuovamente quella soglia.

Di Blizzard Entertainment ho sempre giocato quasi tutto, seguendo il team dagli albori e osservando altre persone giocare a Diablo II, per poi viverlo successivamente una volta cresciuto. Recentemente, l’ho riesplorato attraverso la versione Resurrected, un’occasione per chiunque – anche per coloro che non hanno mai giocato il secondo capitolo prima di oggi – di ripercorrere una grandissima epopea, delineata al tempo in modo brillante, proposta nel 2021 con degli ammodernamenti di sorta. Mai lo avrei con così fermezza, ma sì: Diablo era meglio prima. Lo è sempre stato. Diablo IV, per quanto possa essermi piaciuto, non ha riportato quelle antiche atmosfere.

Diablo II non è solo un capolavoro perché ha dato nuova linfa a un genere, ma perché, esattamente come Titan Quest, ha dato modo ad altri studi di tentare la fortuna

Nel vasto panorama degli ARPG isometrici, non è semplice creare qualcosa, neanche se sei il team che ha apportato più contenuti al genere. Vedersela con produzioni come Grim Dawn, Torchilight 2 e il buonissimo The Incredibles Adventures of Van Helsing non è per tutti, figuriamoci per team che deve dare un continuum a un brand. Non è stato neppure semplice arrivare a proporre qualcosa di nuovo dopo il buon Weird West, non sicuramente indimenticabile, seppure forte di un Colantonio in formissima. Diablo IV è stato un ritorno al passato sotto certi aspetti, ma è stato anche un videogioco enormemente semplificato per un pubblico più ampio. Questo lo si era già avvertito con il terzo capitolo del franchise, che ebbe un buon successo e spinse molti giocatori a riprenderlo soprattutto dopo l’inserimento del Negromante, le cui abilità hanno saputo deliziare sul serio tutti quanti e coinvolgere, anche in modo scenografico, coloro che cercavano un personaggio che avesse ben più di qualche skill da mostrare.

Il Barbaro, nel 2009, fu la mia assoluta prima scelta. 

Questo approccio, tuttavia, era già conosciutissimo con Diablo II. Al tempo non molti se ne rendevano conto, ed è vero quando si dice che talvolta certi videogiochi sembrano esattamente come lo erano in passato. Penso a Dead Space, che me lo ero sempre immaginato come lo hanno trasposto nel remake, nonché ad altrettante produzioni analoghe che hanno ricevuto negli ultimi due anni un rifacimento completo.

Visto che le remastered e i remake hanno senso di esistere?

La versione Resurrected di Diablo II, però, è sospesa tra ciò che noi consideriamo remastered e cosa riteniamo remake. Ammoderna l’impatto grafico, non cambiando alcunché del game design. Pur avendo giocato l’originale nel 2009, ricordandomi ben bene alcune cosucce, e avendo comunque concluso Diablo IV alcuni mesi fa, non è complesso capire perché la seconda iterazione sia migliore sotto tanti punto di vista, e non è solamente l’anima vecchia scuola a darci la certezza di essere una produzione lucidissima pure oggi. Lo è la sua anima, lo sono la mole di ambientazioni, di armi e di dungeon, di morti e rinascite. Soprattutto di morti.

MORIRE TRA LE OMBRE DI SANCTUARIUM

Premessa necessaria, prima di fare guai: non penso che Diablo IV sia semplice (dipende tutto dal livello del mondo con cui s’inizia, esattamente come avveniva con Diablo III), né che sia un pessimo Diablo o un pessimo videogioco; anzi, è Diablo all’ennesima potenza. Credo semplicemente che i paragoni con il passato siano profondamente errati. E lo si comprende sin dal primo momento. No, non parlo di come sia cambiata l’approccio al racconto e neppure di cosa ruoti attorno al personaggio. Parlo della semplificazione di meccaniche che, invece, potevano essere maggiormente approfondite, prendendo in esempio il secondo episodio del franchise.

Andariel, alla fine dell’Atto 1, è ancora oggi un boss che sa il fatto suo. Anche se lo considero un boss preparatorio a cosa avverrà da lì a breve.

Ora, è semplice arrivare a chiacchierarne dopo anni dalla pubblicazione della remastered/remake/biscotti al cioccolato (chiamatela come vi pare), e non è molto saggio farlo a seguito di Vessel of Hatred, ma c’è un dettaglio che, rigiocando a Diablo II: Resurrected, non riesco a togliermi dalla testa: la costruzione del personaggio, che coinvolgeva le build, era davvero centrale; senza dimenticare gli altri succosi, croccanti elementi, come un’esplorazione che non sapevi dove conduceva. Diablo II era più conservativo, non eccedeva, sapeva cosa voleva e dove andare. Questo apporto, senza nulla togliere a Diablo IV, che ha un sistema di classi, di studio della build e delle abilità magistrali e ben curate, mi ha fatto capire come mai il secondo capitolo ha sempre avuto una marcia in più sotto moltissimi punti di vista.

Le tante possibilità all’interno di Diablo II vanno di pari passo con una personalizzazione davvero marcata del protagonista

C’è da dire che morire in Diablo II è diverso che farlo nella quarta iterazione del franchise. Lo è perché questo implica dover recuperare l’equipaggiamento nella zona in cui si è stati sconfitti. Già all’epoca era un’idea fantastica; ora non solo la trovo azzeccatissima e meravigliosa, ma pure bella tosta e impegnativa, specie durante l’Atto 2 e l’Atto 3. Alzate le mani, avanti: quanti di voi, in un modo o nell’altro, non sapevano come affrontare Duriel? Per arrivare a capirlo, sia all’epoca che oggi, ho dovuto vagliare un sacco di possibilità, di calcolare le statistiche del mio personaggio e, amorevolmente, di livellare al passo del paguro, visitando le stesse ambientazioni già viste prima. Questo approccio qua, questo tentativo costante di migliorarsi e di capire dove si sta sbagliando e come arrivare a una conclusione serie, in Diablo IV non c’è.

E dopo, infatti, c’è Duriel, un boss che, con l’effetto gelo, sapeva seriamente come congelarti sul posto e procurarti dolore.

Non l’ho mai percepita per circa le centocinquanta ore passate in sua compagnia, e quel livello di tensione, di adrenalina che si prova con il timore di sbagliare qualcosa, di perdere per l’ennesima volta e di ripetere, di grindare anche per un intero pomeriggio e di migliorare le armi con il Cubo Horadrico, nel quarto capitolo non si avverte neppure a livelli ostici. Morire diventa elegante, quasi coinvolgente, e non fa arrabbiare: costringe a riflettere, a confutare ogni possibilità e a trovare una soluzione. Cioè, fermi: arrabbiare lo fa eccome, soprattutto quando hai uno scudo raro, una spada rara con incastonate rune di vario tipo e altre diavolerie che non riesci a recuperare perché il boss, inaspettatamente, è più potente di te.

COSE DI DUNGEON, NEMICI E DELLE ATMOSFERE DI DIABLO II

A inizio articolo, ho incollato un video di Ars Technica. Parla dell’evoluzione dal primo Diablo alle recenti iterazioni di Blizzard Entertainment. Comparandolo con le scelte di design sia del secondo capitolo che del quarto, ho notato la differenza di cui sopra, ma soprattutto un cambio di approccio. In Diablo II, c’era un’area unica nei diversi Atti che fungeva da hub e permetteva di cambiare equipaggiamento, di migliorarlo e di incastonare pietre preziose e di prendere le missioni da personaggi specifici, come Deckard Cain. Lo stesso Sacred, videogioco di Studio II, si approcciava in questo modo al mondo di gioco, proponendo comunque delle missioni secondarie dimenticabilissime. Diablo II va dritto al sodo, si contorce attraverso le missioni principali e segue questo stilema. Semplice, immediato, perfettamente bilanciato. E se devo essere franco, preferisco di gran lunga – anche a distanza di anni – un rapporto del genere, piuttosto di missioni secondarie, fetch quest e tanto altro che portano certo a esplorare nuove aree, ma lasciano un po’ l’amaro in bocca, se si pensa alla scrittura dietro alle stesse.

Diablo II

Deckard Cain è il vecchio saggio che tutti vorremmo avere in un determinato momento.

Rendere lineare un’avventura, diramata comunque attraverso approcci diversi e dungeon da esplorare che possono condurre in altre strade, è la scelta migliore. Blizzard si concentrò molto su questo aspetto, e in quella linearità, però, si creavano i bivi che andavano solo scoperti e affrontati come meglio si preferiva. Da quelle strade intricatissime, oscure e celate, uscivano fuori le creature peggiori che il limbo di Diablo potesse buttare fuori. Aggressive, spregevoli, violente e piene zeppe di malvagità, sapevano come procurare dolore. Comprendere come affrontare Duriel è stato alquanto tosto, e c’è mancato poco che non perdessi la ragione e mollassi tutto, al tempo. Provando e riprovando, ho poi compreso: serviva usare un’arma con l’elemento gelo per rallentarlo.

Rendere lineare un’avventura, con le dovute diramazioni, è la scelta migliore

Ha sempre avuto un pattern alquanto infame, brutale, e ha sempre fatto male. C’era l’occasione addirittura di morire dopo due colpi del maledetto, e di dover ripetere costantemente le medesime azioni. Avendolo sconfitto da relativamente poco, ho compreso che negli ARPG e nei RPG mi manca sbagliare. Mi manca studiare. E mi manca capire e captare come affrontare determinate situazioni. Con Sacred, al tempo, mi piaceva molto tentare e poi vedere come andava a finire. No, non parlo del secondo capitolo, di cui, nonostante la missione dedicata ai Blind Guardian, non conservo bei ricordi. Mi riferisco a quello che, comunemente, è chiamato su Steam “Sacred Gold”, un’avventura invecchiata male di un franchise che è morto con un terzo capitolo che si è trasformato, con tutto il rispetto per gioca su mobile, in un videogioco per cellulari.

QUANDO BLIZZARD TI RENDEVA LA VITA UN INFERNO

Dirò una cosa probabilmente un po’ forte: un team che si piega alle semplificazioni delle proprie esperienze, sia esso piccolo che grande, mi spaventa molto. Il game design del secondo capitolo è l’esempio perfetto del bilanciamento che avrei visto davvero bene nel quarto capitolo del franchise. Questo va di pari passo, però, con l’espansione del franchise verso i nuovi giocatori, che non è mai un male. È quando lo si fa forzatamente a spaventarmi e senza considerare le frange di appassionati che avrebbero preferito qualcosa di più tosto, con rifilato un game design meglio definito e un sistema di gioco che sapesse picchiare a dovere il giocatore quanto dargli, a sua volta, tanto di cui gioire.

Diablo II

Esplosioni di magia e altre meraviglie.

Non è il classico sistema bastone e carota, se qualcuno è arrivato a una conclusione simile. Con Diablo II, Blizzard proponeva tre livelli di difficoltà, infoltiva in seguito l’esperienza e seguiva un percorso creativo che teneva molto alle situazioni che si creano in game, con la lucidità di creare un’opera che è ancora oggi il reale punto di riferimento per gli ARPG isometrici.

Al mondo servono più videogiochi come Diablo II, che sappiano non soltanto accontentare tutti, ma spingere il giocatore a sfruttare ogni elemento del titolo che ha sottomano

E per quanti Diablo-like ci possano essere, da Grim Dawn a Last Epoch e così via, nessuno riuscirà mai a proporre mappe che cambiano all’avvio di ogni partita, caratteristica che mi ha sempre mandata in pappa il cervello e continua ancora oggi a farlo esplodere. Giocare ore a Diablo II: Resurrected significa trovare la strada giusta per restare in contatto con quanto si desidera davvero. E anche se i boss e i dungeon potrebbero incatenare a tal punto da portare alla follia in questo limbo costante, uscirne resta ancora oggi difficile.

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