Non è il segreto di Fatima che S.T.A.L.K.E.R 2: Heart of Chornobyl sia crudo, violento e brutale. GSC Game World lo aveva messo in chiaro già ai tempi, con i capitoli principali del suo franchise, dimostrando che la morte era una possibilità quotata al cento per cento sull’immaginifica scala Richter delle bestemmie.
Le stesse venivano pronunciate a iosa quando ci si dimenticava di aver salvato a un punto critico, magari in una zona disseminata di cani da guardia pronti a banchettare sul corpo esamine del protagonista, o per qualche nemico nascosto chissà dove, tra le frasche, pronto a dare quel candido, caldo benvenuto con un accento di Odessa, o di Kyiv. Se non avete mai avvertito questa emozione, ebbene, dovreste farlo: è come arrivare per primi in un all you can eat ed essere da soli. La differenza sostanziale, nonché abbastanza chiara, è che non muori mangiando. S.T.A.L.K.E.R 2: Heart of Chornobyl sia, pensate un po’, potete addirittura schioppare se cadete per sbaglio in un qualsiasi specchio d’acqua. Belle le radiazioni, le anomalie e qualche radiazione per aver baciato un palo, non è vero?
Le stesse venivano pronunciate a iosa quando ci si dimenticava di aver salvato a un punto critico. Intendo le parole d’amore, ovviamente
Basterebbe fare giocare ai russi il titolo se è ancora possibile, se il giocatore non rischia di essere avvelenato con il polonio in modo del tutto casuale. Ma no, scusate: niente politica nei videogiochi, ché poi il divertimento svanisce nel nulla. Oggi si parla di gunplay, di come GSC Game World lo ha realizzato con tanta dovizia di particolari e del perché ogni scontro appare come l’ultimo. E no, non basta alle volte premere il grilletto per primi. Talvolta, serve sapere entrare in contatto con l’ambientazione e capire che è necessario prendersi il tempo giusto per ogni sparo, specie se l’arma s’inceppa. Ecco, quello è un guaio.
SE L’OKI NON TI GUARISCE, PROVA S.T.A.L.K.E.R 2: HEART OF CHORNOBYL
O cerca quanto meno di sopravvivere. Non servono collegamenti vari ed eventuali alla storia di questo capitolo del franchise; ci ha già pensato dignitosamente Ema a farlo con la sua recensione. Non serve neppure perdersi inaspettatamente per un campo di papaveri e suonarvi la chitarra, cantando “La Guerra di Piero” o il “Cantico dei Drogati”. Ecco, quella missione, che è appena poco l’inizio del titolo, è una delle più deliziose all’interno della produzione. Non serve guardare la mappa per orientarsi; serve solo procedere con calma, in modo astuto e parsimonioso, ponendo attenzione a ogni passo.
No, lo so: non è facile. Il titolo, tuttavia, obbliga a procedere lentamente, mostrando che ogni elemento – anche quello meno scontato – ha un suo valore. In quel frangente non serve sparare. Serve sopravvivere. E serve capire dove andare, facendo attenzione a dove mettere i piedi. Questo genere di approccio, oltre a integrare in modo efficace il dover strappare ogni respiro a morsi per non scivolare nel dolore brutale di un lento trapasso, pone l’accento sulle anomalie, che diventano veri e propri agenti naturali della Zona.
Da un vento troppo forte, a lampi improvvisi: il cielo sopra la Zona, per l’appunto, non è azzurro. E si pensava che, dopo il disastro di Chornobyl, si potesse respirare tranquillamente. Cioè, non esattamente proprio vicino alla cittadina. Poi è imploso tutto e a non essere seccati è stata la maggior parte della gente che è riuscita a rifugiarsi. Gli altri, tra uno strimpellio di chitarra e la deglutizione di un salame slavo, sono costretti a spararsi a vicenda. La Zona, dunque, assume il ruolo della reale protagonista in ogni sua area, ora interconnessa, squisitamente elegante quanto brutale, delineata attraverso una mappa consultabile in ogni momento, con dati preziosi – anche se non palesati – che ne indicano la morfologia. E, urca, quanto c’era bisogno che laghi, fiumi, ponti e aree boschive venissero mostrate all’interno di un videogioco.
GSC Game World ha preso Shadow of Chornobyl e ha espanso in modo significativo qualunque elemento del primo capitolo, riuscendo nel complesso compito di migliorare integralmente un sistema di gioco che ha sempre creato assuefazione perché rendeva il gioco, davvero e inaspettatamente, molto più di ruolo di quanto si pensi. E al tempo c’era pure il doppiaggio in italiano, un ottimo doppiaggio in italiano, anche se io ho sempre optato – come anche in secondo capitolo – per il commento ucraino.
AMMAZZARE PER SOPRAVVIVERE
A essere migliorato è soprattutto un aspetto centrale dell’opera: il gunplay. Ora, ammetto di aver giocato una mole considerevole di FPS tanto da definirlo uno dei miei generi preferiti in assoluto, e di aver sparato a più demoni, persone e cose così un numero considerevole di volte, tanto da averla fatta diventare una seconda attività a pieno regime. Tuttavia, c’è una cosa che GSC Game World ha aggiunto nel complesso, elegante e stratificato mondo di questo genere, che va ben oltre l’open world con visuale in prima persona: un realismo folle, pazzo, tremendamente avvincente e piacevole da vedere e da giocare. Caricare l’arma, vedere come s’inceppa e cercare soluzioni diverse è la parte considerevolmente più riuscita dell’opera in ogni suo componente. Immaginate doverlo fare in una frazione di secondo, che corrisponde alla rapidità che si deve avere per cambiare arma e per innestare uno scontro a fuoco che riesca a mettere in equilibrio la situazione. Sembra semplice, ma è complesso, di un difficile quasi sfiancante e ansiogeno.
GSC Game World, nel corso di questi anni, ha cercato in ogni modo di vendere il gioco come realistico. Lo ha fatto mostrando intere sequenze di combattimento e delle sparatorie non semplici da gestire. Ciò è presente nell’ultimo capitolo in un modo maniacale, con delle animazioni vere e reali, che portano letteralmente all’interno dello schermo del PC, facendo sentire il peso di tutto, soprattutto del rinculo.
Nel corso di un combattimento, avvenuto poco prima la stesura di questo speciale, sono dovuto fuggire da un’area che è stata riempita nel giro di due nanosecondi
Non è qualcosa che va in contrasto con la sopravvivenza, quando si deve mangiare o ci si deve curare a causa dei danni ricevuti: resta il reale core esistenziale all’interno dell’opera; ne fa parte, è un’anima splendida, curata a dovere, e GSC Game World ha reso lo scontro non soltanto realistico, ma soprattutto simulativo. Sperare di sopravvivere a uno scontro aperto, in inferiorità numerica e con un’arma non capace di compiere il compito per cui esiste, è un’utopia assurda. Inutile vi ripeta quanto possa essere utile una copertura, che nel grande ordine delle cose può aiutare a evitare di finire in una bara in mogano. C’è anche un’altra parte, quella che però non sente nessuno, ma che fa parte un po’ del percorso all’interno del gioco: ovvero, quando si viene circondati. È un’eventualità, e su questo l’IA – non sempre perfettissima – dei nemici ha saputo offrire diramazioni di ogni tipo. Quello che al momento non mi piace molto, e che è un pochino il problema di S.T.A.L.K.E.R 2, è l’effettistica delle esplosioni.
Non è qualcosa che va in contrasto con la sopravvivenza