Autofire cammina con me: suggestioni di David Lynch nei videogiochi

Twin Peaks diventa Silent Hill, quando si lascia avvolgere dalla nebbia. Ma anche Thimbleweed Park quando a prendere il sopravvento non è l’orrore ma l’outrè dei personaggi che vivono in queste province americane separate da 27 anni e poco altro.

La cifra stilistica dei veri grandi è quella di cambiare il nostro vocabolario. Dopo Shakespeare il dubbio sarà inevitabilmente amletico. Una pièce dove la quarta parete viene meno è pirandelliana. È inevitabile, perché quando qualcuno o qualcosa entra così di prepotenza nel nostro immaginario finisce per influenzarlo. Nascono cloni e cover, opere derivate e citazioni.

Ed era inevitabile che succedesse la stessa cosa con David Lynch, e che “lynchiano” diventasse un termine anche per l’Oxford Dictionary.

Nominalmente David Lynch e i videogiochi si sono incontrati solo in quel “third place” a cavallo tra il reale e l’onirico che il marketing di Sony rappresentava come PlayStation 2. Ma la cifra stilistica dei veri grandi è quella di cambiare il nostro vocabolario. E inevitabilmente Lynch ha finito per condizionare anche quello di chi i videogiochi li fa.

THE FOUNDATION

L’immagine di Lynch nelle nostre teste è così forte che spesso basta veramente poco per evocarla. Con Control Remedy più che dalla mente di Eraserhead attinge alle atmosfere di The X-Files, spingendoci però a cercare la verità dentro la Oldest House piuttosto che “la fuori”. “La vita ci confonde, mi confonde, tante volte. Nella vita non ci sono sempre risposte giuste a portata di mano. Sento che nell’arte non tutto deve esserti necessariamente spiegato, finché è ben fatto“. Una certa influenza lynchiana c’è, Sam Lake non la nasconde nella stessa intervista da cui son tratte queste parole. Ma riguarda soprattutto l’attitudine del regista a non ritenere di dover per forza spiegare le intenzioni dietro le immagini, l’utilizzarle per veicolare un concetto o un’emozione anche a costo che il senso logico ne risenta. L’intreccio nella sua forma è più importante della fabula nella sua sostanza, la storia diventa quasi un accessorio. Il “third place” dove Lake fa più sfacciatamente l’amore con David Lynch è Alan Wake. Il secondo capitolo in particolare fa molto poco per nasconderlo fin dalle sue fasi embrionali. Prima ancora di avere un titolo il suo nome in codice era “Big Fish”, richiamando il titolo dell’autobiografia del regista, “Catching the Big Fish”. Oddio, “autobiografia”. Forse è più un trattato sulla meditazione e sulle idee, sulla necessità di scendere in acque più profonde se e quando si sente il bisogno di dare la caccia a quelle più grosse.

Immagina andare in ufficio ed essere “costretto” a guardare Twin Peaks.

E da questo punto di vista chissà quanto si è immerso Hideo Kojima prima di tornare in superficie – un po’ come fa Sam Porter Bridges prima di resuscitare – con Death Stranding appeso alla fiocina. Sembrerebbe un salto logico casuale, una lynchiata dentro un pezzo dedicato ad altre lynchiate, ma fortunatamente Kojma è l’opposto polare di Lynch e laddove il papà di Mulholland Drive non spiega nulla quello di Metal Gear ha la necessità di farlo in modo didascalico.

Ma che c’entra adesso Kojima? Beh, siediti…

Proprio per questo di Hideo conosciamo vita, morte e miracoli, incluso l’aneddoto per cui teneva così tanto che tutti in Kojima Production conoscessero il lavoro di Lynch da proiettare in ufficio il primo episodio della terza stagione di Twin Peaks, regalando cappellini col logo aziendale ai partecipanti. Proprio in quel terzo posto per cui Sony aveva chiamato David dietro la cinepresa Hideo ha pubblicato una delle sue esperienze più surreali. Forse il suo unico lavoro dove come in Lynch la narrazione passa in secondo piano, è più importante catturare uno stato d’animo, trasmettere a chi sta davanti allo schermo l’inquietudine esistenziale di Raiden. Raiden che sente di non avere più un posto del mondo. Raiden che sta vivendo una simulazione che ad un certo punto inizia a collassare svelandosi tale. Raiden che alla fine è costretto a svegliarsi da questo sogno per scoprire che la realtà è ancora meno logica.

LYNCH’S AWAKENING

Link si sveglia su una spiaggia, ventimila leghe di distanza da Hyrule. O da qualunque altro elemento classico di The Legend of Zelda, perché in Link’s Awakening non compaiono né la Principessa, né la Triforza e nemmeno Ganon. Koholint è un’approssimazione a 8-bit di quella Twin Peaks che ha da poco smesso di andare in onda, per stessa ammissione di Takashi Tezuka. Tezuka vuole uno Zelda diverso, più onirico e a tratti surreale, tanto che durante lo sviluppo il team (che è sostanzialmente lo stesso team di A Link to the Past, uno degli Zelda più Zelda di tutta la serie) ha spesso l’impressione di star sviluppando una parodia della serie piuttosto che un nuovo capitolo. E Link’s Awakening restituisce un feeling grottesco anche una volta inserita la cartuccia nel Game Boy o su Switch. È quasi come se stessimo giocando un sogno, lo stesso che Link nella finzione di gioco sta vivendo, e la presenza di personaggi che non dovrebbero essere lì come Categnacci e Piante Piranha crea questo mood dissonante eppure verosimile che sperimentiamo durante la fase REM.

Chiara citazione a Super Mario 64

Qualcosa di Link’s Awakening rimarrà anche una volta svegli. Anche nei capitoli successivi la dimensione del piccolo villaggio sulla falsariga dell’isola di Koholint reclamerà il suo spazio, dando spazio a personaggi sospetti o comunque assurdi. È solo un’eco lontana di quello che è ad oggi il capitolo più sperimentale della serie, così lontana che difficilmente riusciremmo a collegare il Villaggio Calbarico di Breath of the Wild a Lynch. È un po’ come se questo ascendente sia finito per diluirsi col tempo, e dopotutto è in effetti così: Link’s Awakening è del 1993, e probabilmente all’epoca era anche più facile eludere il controllo degli executive di Nintendo inserendo di straforo personaggi come Mario o Kirby in un gioco non loro. Mario Kart ci ha messo ben 8 capitoli prima di avere lo stesso coraggio.

THE DAVID PARABLE

Uno Zelda sperimentale. La lineup di una software house indubbiamente creativa, ma difficilmente baciata dal grande pubblico. Il Metal Gear Solid meno apprezzato della esalogia – perché conta anche Peace Walker. L’ombra di Lynch si accende lì dove ci si assume dei rischi. Non è roba per quei Tripla-A che chiamiamo così perché come concepiti per essere un investimento sicuro, mutuando l’etichetta da Piazza Affari. È materiale per spregiudicati, e quindi è naturale che trovi la sua dimensione nell’indie. The Stanley Parable pesca assolutamente il Pesce Grosso, l’ufficio di Stanley sarà uno spazio liminale per chi ha affrontato il Labirinto del Posacenere di Control (sarebbe più giusto dire il contrario, ma di nuovo, intreccio batte fabula).

Lo “spettro lynchiano” nei videogiochi va da Gilbert fino a… Suda51?!

Thimbleweed Park di Ron Gilbert è a tutti gli effetti un’altra riduzione in pixel di Twin Peaks. Si potrebbe obiettare che le avventure punta-e-clicca a la Lucas Art abbiano sempre giocato con l’assurdo e il grottesco, ma nel caso specifico di Thimbleweed l’influenza si fa più concreta fin dall’ambientazione ed è lo stesso Gilbert a parlarne apertamente prima del lancio del gioco. “Quello che volevamo fare con Thimbleweed Park era avere in superficie questa piccola e tranquilla città, ma sotto poi ci sono un sacco di persone strane e di cose bizzarre”. Non si può fare a meno di respirare Lynch anche in Lorelei and the Laser Eyes, e non a caso tutti i vari paragoni videoludici che si associano al titolo rientrano nello spettro lynchiano, inclusi i paralleli con Suda51 – che di solito viene più ricondotto a Tarantino, probabilmente perché nella memoria collettiva il suo titolo più di richiamo è ancora No More Heroes.

Thimbleweed Park Immagine PC Xbox One 09

Chi non ha mai parlato con una fetta di pizza a tarda notte?

O forse perché come nel caso di Control alla fine perchè l’autofire cammini con noi, come nel prequel di Twin Peaks, ci basta davvero poco. Un’impronta talmente tanto forte che ci basta intravedere il segno lasciato da un dito su uno specchio per pensare a lei, anche quando la razionalità vorrebbe ricondurre quel segno ad altri corpi.

 

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