Chiudete l'open world!

Mi credete se vi dico che sono riuscito a perdermi, in diverse occasioni, tra le svolte ubriacanti e i dislivelli disorientanti di Novigrad?

Similmente, Oblivion poneva la guglia d’oro della città imperiale come punto cardinale del nostro vagolare: visibile da gran parte della mappa, era il magnetico ago della bussola che agevolava l’esplorazione. Non vorrei arrivare a parlare di geografia del territorio, e sarà che con l’andare degli anni ho smarrito il senso dell’orientamento, ma ci credete se vi dico che sono riuscito a perdermi, in diverse occasioni, tra le svolte ubriacanti e i dislivelli disorientanti di Novigrad?
oblivion

molti open world tendono a menare il giocator per l’aia

Le città dei titoli passati, in definitiva, mi parevano fatte su misura di videogioco con un numero finito di edifici ma volto a tracciare una topografia ben definita che permaneva nella memoria (dalle finestre di Dragonsreach, in Skyrim, è possibile contare un “misero” 17, per quanto concerne il numero di edifici). È il caso della “ridente” Flotsam di The Witcher 2 di cui conosco ogni palmo, a partire dal villaggio di Lobinden addossato alla città portuale, passando per l’altare di Vejopatis, sino ad arrivare agli altissimi bagni elfici dove ho consumato un incontro piccante con Triss. Dell’ampio Velen e dei suoi insediamenti, invece, non ricordo nulla, a parte un albero contorto.

LA DEFINIZIONE DELLA FOLLIA

Geografia a parte, molte delle attività che siamo chiamati a svolgere negli open world (il già citato crafting o la caccia) rientrano appieno nella definizione di “follia” data da Vaas Montenegro in Far Cry 3: continuiamo a ripetere le medesime azioni sperando che queste portino a un qualche cambiamento tangibile nel tasso di divertimento veicolato dal gioco, la verità è che – spesso, causa ripetitività – mi coglie il desiderio di chiudere e presto, di gettarmi completamente nelle braccia della main quest, procedimento sovente rallentato da requisiti di livello che mi costringono a grindare e così a permanere in terre che mi hanno sì ben accolto, ma che ora vorrei lasciarmi alle spalle.giochi open worldQuel che è peggio, molti titoli con la scusa della loro natura open tendono a menare il giocator per l’aia, obbligandolo a macinare chilometri virtuali. Vengono in mente l’inseguimento a cavallo di Dandelion in The Witcher 3: Wild Hunt o la tediosissima “Spade e Ravioli”, affidataci dal buon Hattori, che ci vede fare la spola fra le due estremità del quartiere dei moli.

in alcuni open world mi è sembrato di aver dipanato un colorato gomitolo, enorme ma composto da rigidissime quest

Altri open world, di contro, ad esperienza conclusa, mi hanno restituito la sensazione di aver dipanato un colorato gomitolo, enorme nondimeno composto da rigidissime quest. È il caso di Far Cry 3 dove, una volta giunti sulla seconda isola, veniamo infilati in un imbuto di missioni lineari che ci costringono ad assecondare il piano sballato di Sam. Soprattutto, perché quando ammaro con la tuta alare sono obbligato a centrare una superficie d’acqua risicatissima in mezzo a cotanto liquido cristallino? Rigidezze che altrimenti passerebbero inosservate, ma che in un open world risaltano come fossero bachi in un tessuto connettivo vastissimo.

Non siete d’accordo con quanto detto sopra? Liberissimi, consentitemi nondimeno in chiusura di giocare il jolly. Tenete presente che una delle quest più belle degli ARPG recenti è la Festa del morto del DLC Cuori di Pietra (ancora, The Witcher 3: Wild Hunt). Pur collocato in un contesto open, il clou della missione si svolge interamente in una fattoria e nei campi strettamente limitrofi. In uno spazio sì ristretto ma particolarmente ispirato abbiamo tutto: utilizzo dei sensi da witcher, combattimento, regia, una “spietata” partita a gwent, approfondimento dei personaggi e relativo romanzetto con uno dei personaggi più belli della saga dello Strigo (Shani, naturalmente). È il caso più lampante di quality over quantity, a fronte del quale credo sarebbe opportuno chiudere gli open world.

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