Si scrive videogioco, leggiamo giocattolo - Editoriale

“Il lavoro di critici videoludici è esclusivamente determinare se il tal gioco è divertente o meno da giocare, e il motivo”. Diverse testate hanno sostenuto questo mantra lungo gli anni, e le vicende intorno a ‘Colui che non si può nominare‘ – lo facciamo, invece, per chi non conosce il riferimento, è Hogwarts Legacy – hanno risollevato nella mia testa la domanda.
Ma davvero tutto quello che può fare un videogioco è divertire?

The Last of Us parte 2Picasso non raccontava barzellette. A nessuno verrebbe mai in mente di valutarne l’opera sulla base del divertimento, dopotutto non stiamo parlando di una striscia a fumetti, l’intenzione è diversa nonostante il mezzo sia quasi lo stesso. Con i videogiochi non succede. L’intenzione spesso è marginalizzata, si chiamano “giochi”, no? E quindi ci si aspetta di trovarci del ludo a tutti i costi, anche laddove l’autore ha cercato di attingere a frequenze d’onda diverse dello spettro emozionale. È quell’approccio gameplay first che mette il giocato al di sopra di tutto il resto, l’unica cosa che conta come vincere per quella squadra di calcio che – anche lei – non può essere nominata. Un approccio a cui però ammettiamo delle deroghe, anche se non ce ne accorgiamo.

THE LAST OF FUN

Dovendo descrivere The Last of Us nemmeno il sostenitore più accanito dell’opera di Naughty Dog ne citerebbe il gameplay come elemento focale. The Last of Us non è una giostra costruita su script che mettono in circolo adrenalina ad ogni azione del giocatore come Uncharted. È un’esperienza più dilatata, che si prende i suoi tempi in modo da costruire un legame tra chi sta davanti allo schermo e i personaggi che vivono dall’altra parte.

The Last of Us non è una giostra costruita su script che mettono in circolo adrenalina ad ogni azione del giocatore come Uncharted

The Last of Us ha bisogno che noi ci affezioniamo a Ellie, di farci sentire la necessità di proteggerla attraverso Joel al punto da deformare la realtà con la nostra percezione e, quindi, rendere Joel un uomo buono costretto dagli eventi e dall’amore a fare azioni cattive, non uno stragista sociopatico che sovrappone il ricordo di sua figlia con quello della ragazzina che dovrebbe scortare. The Last of Us ha bisogno di farci provare empatia per poter funzionare. E ha funzionato proprio perché c’è riuscito, diventando per tantissimi un punto di riferimento per la narrativa nei videogiochi. Il divertimento non è nemmeno contemplato in questa equazione del successo dell’opera.

The Last of Us

Nemmeno la sua Parte 2 si appella al ludo. Il gameplay qui è indubbiamente più raffinato, una generazione di console e sette anni dopo. Il messaggio di Druckmann e i suoi però rimane un altro, l’intento è quello di mettere il giocatore davanti alle conseguenze delle sue azioni, fargli provare vergogna per quello che ha fatto e rabbia verso sé stesso. I cani guaiscono quando vengono eliminati, piangono i loro padroni quando Ellie li elimina. I nemici hanno nomi, routine comportamentali, si chiamano tra di loro per radio. Sono persone, per quanto sia possibile dare lo spessore di un essere umano fungibile ad un simulacro di pixel e poligoni.

Nemmeno The Last of Us Parte 2 si appella al ludo: l’intento è farci provare vergogna e rabbia verso noi stessi per le nostre azioni

The Last of Us Parte 2 in questo è un Hotline Miami con la tecnica da Tripla-A: ci dà tutti gli strumenti per seminare morte e distruzione, e poi ci vomita in faccia le conseguenze dei nostri gesti. Dennaton lo faceva obbligandoci ad attraversare a ritroso quei livelli pieni di sangue e cadaveri, Naughty Dog lo fa rigirandoci contro la nostra fregola per il fotorealismo nei videogiochi. Il finale ribadisce il concetto a schermo andando oltre le meccaniche di gioco. Io ero con Ellie quando ha deciso di abbandonare tutto per cercare la sua vendetta. Ero con Ellie quando questo le è costato ogni cosa. Ero Ellie, quando suonava la chitarra alla fine mentre ripensavo a tutti i comportamenti autodistruttivi che, nel mio piccolo, mi hanno portato ad essere lei, a perdere quello che ha perso lei.

MONSTER WANDER

Parte 2 suggerisce una cosa, cioè che la stessa meccanica di gioco in due contesti diversi possa avere conseguenze opposte su chi gioca. Non mi sono mai sentito in colpa ammazzando i cani di Call of Duty Black Ops. È la stessa cosa che ha fatto Team Ico con Shadow of the Colossus, in un certo senso. A livello di meccaniche de facto, il secondo secondo Ueda è un gioco dove, stringi stringi, lo scopo è salire su delle creature enormi e colpirle finché non muoiono. Si potrebbe dire la stessa cosa di un Monster Hunter, volendolo spogliare di tutto quello che c’è stato costruito sopra.

La differenza tra Monster Hunter e Shadow of the Colossus è che Capcom incentiva a uccidere i mostri, Team Ico invece punisce e colpevolizza

La differenza sta appunto in questo: Capcom premia il giocatore quando si comporta in questo modo, incentiva il comportamento perché è necessario per ottenere armi e armature e progredire nelle sfide di caccia più avanzate. Team Ico invece punisce e colpevolizza: ogni colosso morto avvicina Wander al baratro e comunica un sempre crescente senso di colpa e di inadeguatezza. Molti dei colossi sono inerti e non ingaggiano il giocatore se non dopo essere stati provocati. Non c’è nessun punteggio che sale a schermo, nessuna victory fanfare quando si vince contro il nemico. In Shadow of the Colossus l’uccisione è trattata per quello che è: un crimine. Il divertimento non fa parte della formula, anzi, è alle coordinate opposte dello spettro emozionale rispetto a quelle che Shadow of the Colossus tocca.

Shadow of the Colossus

Non c’è nulla di male nel divertimento. Uno dei videogiochi migliori che abbia giocato negli ultimi anni è Super Mario Bowser’s Fury. Un gioco che non vuole insegnare nulla, è intrattenimento puro come forse solo Super Mario 64 è riuscito a essere all’interno della serie. Un giocattolo fatto e finito. Un giocattolo che ha l’unico difetto di essere ancorato ai 30 frame al secondo, ma per il resto nella mia testa si avvicina a quella tanto agognata perfezione che cerchiamo da ogni esperienza. Il divertimento va benissimo. Il problema è quando diventa l’Unico Vero Dio, quando si pretende che l’unico Vangelo sia quello secondo Shigeru Miyamoto dimenticandosi che anche del Vangelo – quello vero – esistono versioni diverse. Il divertimento va benissimo. Ma non tutti i videogiochi devono essere divertenti. E non tutti i videogiochi devono essere fatti per noi: lasciamoli liberi di diventare quello che hanno sempre voluto essere.

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