Tears of the Kingdom è un more of the same perché la mappa è la stessa. God of War Ragnarok è un more of the same perché la mappa è la stessa. Pokemon Nero 2 e Bianco 2 sono more of the same perché la mappa è la stessa. Ma perché ci dà così fastidio tornare ad Hyrule, su Midgard, o a Unima?
Potendo viaggiare verso qualunque destinazione nel mondo, torneresti in un posto che hai già visitato? In apparenza la domanda non sembra c’entrare nulla coi videogiochi. Ma in realtà se ci pensi alla fine i videogiochi – per me, per te, per un sacco di altre persone – sono escapismo. La possibilità di raggiungere luoghi lontani, evadere da quella che è la vita di tutti i giorni facendo esperienze che spezzano la routine di abitudini che hai costruito nella vita reale. I videogiochi sono delle vacanze. Di qualche ora alla volta, ma con lo stesso principio di intervallare i momenti feriali della tua vita.
Da una parte i videogiochi sono mini vacanze, dall’altra offrono (quasi) sempre nuove località
IL PIACERE DELLA (RI)SCOPERTA
Tornare in un posto che è stato parte di noi e adesso non lo è più fa sempre un certo effetto. A seconda del tempo passato è cambiato il posto, sei cambiato tu, siete cambiati entrambi. Avete nuove cose da dirvi, come due vecchi amici che provano a premere il tasto play su un rapporto bloccato su pause. È un aspetto che nei videogiochi si indaga poco: è la dimensione produttuale di cui sopra, il marketing che impone metriche roboanti da inserire nei comunicati stampa. Nuove mappe da tantissimi chilometri quadrati, nuove storie, nuove personaggi. Nuovo è la buzzword con cui il mercato prova a convincerci a giocare un capitolo 2, e se su disco non c’è abbastanza “nuovo” si parla di “DLC mancato” o di “more of the same”. È un limite, perché in una certa misura impedisce al medium di sperimentare su quella nostalgia. La saga di Like a Dragon (fino a qualche tempo fa Yakuza) ne ha fatto un punto focale, raccontando l’evoluzione di Kamurochō con il passare dei decenni. Forse è uno dei motivi per cui fino a poco tempo fa non aveva mai davvero sfondato in Occidente, portandosi appresso quell’etichetta di “Grand Theft Auto sulla mafia giapponese” quando in realtà Kazuma Kiryu ha molto più in comune con Yu Suzuki e il suo Shenmue.
Ma Like a Dragon è appunto un riferimento non necessariamente per tutti, anche perché è un’operazione che coinvolge sette capitoli e buona parte di questi oggi porta i segni di quella stessa dimensione temporale esplorata tra un disco e l’altro. Qualcosa di più pop che ci va vicino c’è, e questo probabilmente l’abbiamo giocato tutti – o almeno tutti quelli della mia generazione. Ero a Johto nel 2001. Battute tutte e otto le palestre della Lega, ho risalito le Cascate Tohjo e mi sono ritrovato a Kanto. La Via Vittoria non è quella che ricordavo, e anche i Superquattro e il Campione sono diversi. Dopo averli sconfitti però quella cartuccia mi riporta in una Kanto più familiare. Ad Aranciopoli c’è ancora quell’anziano signore che tre anni prima (in Rosso/Blu/Giallo) stava facendo preparare il terreno al suo Machop per costruirci sopra. I lavori sono ancora fermi, “mancanza di fondi”, mi dice, quando premo A sul mio Game Boy Color per avviare le sue linee di dialogo. Altre cose sono cambiate: L.T. Surge si è allenato, il suo Voltorb è diventato un Electrode, ha aggiunto alla sua squadra anche un Electabuzz. Sull’Isola Cannella è rimasto solo il Centro Pokémon, il vulcano eruttando ha distrutto la palestra di Blane, Villa Pokémon e il laboratorio dove si resuscitavano i Pokémon fossile. È una mera questione di spazio su cartuccia. Adesso che l’anno sul calendario è il 2023 lo so.
Per il me decenne dell’epoca ogni passo era una scoperta, quasi non mi rendevo conto di star giocando una mappa che Game Freak aveva in massima parte ripreso dai suoi giochi del ‘96
GREETINGS FROM HYRULE
Con God of War e Zelda invece le cose sono state diverse. Siamo abituati a sapere tanto se non tutto di un videogioco quando esce, e infatti era chiaro fin dalle prime battute che saremmo tornati lì dove eravamo già stati nel 2017/2018 (a seconda del gioco). Santa Monica ha provato anche in un certo senso a sfruttare la cosa, perché tra il Fimbulvetr e i regni che il capitolo diretto da Barlog aveva tenuto fuori qualche novità c’è. Ma Midgard rimane Midgard, anche se a tratti prova ad accennare la tematica del cambiamento climatico. È solo qualche dialogo, quasi a voler ridurre la questione ad uno dei tanti token che hanno sostituito i gettoni delle sale giochi per il videogioco mainstream, ma un vago intento c’è. Il focus però è più che altro sulle vicende presenti e future, sul Ragnarok del titolo che sta per arrivare. C’è poco tempo per i dettagli e per cosa è cambiato.
Anche Nintendo a dirla tutta ha aggiunto più di qualcosa: al di là dei nuovi poteri di Link, la mappa ha due livelli in più, le isole nel cielo e il sottoterra. La manifattura è scostante, uno studente dotato che a volte preferisce mettersi in fondo all’aula e nicchiare tra i grigi della sufficienza, ma sarebbe improprio ridurre questa Hyrule alla sola superficie al livello del mare. Come per God of War però il focus è da un’altra parte: c’è qualche dettaglio di colore che gioca nei mesi di timeskip tra gli ultimi due capitoli della serie, ma si tratta di curiosità ininfluenti. È passato troppo poco tempo in-game perché possa andare diversamente, le differenze stanno soprattutto in come si approccia il roaming della mappa grazie ai già citati poteri e ai congegni degli Zonau – si è parlato pure troppo del mecha che spara fiamme dai genitali, ma la vera rivoluzione sta in costruzioni più piccole come la “air bike” costruita con due ventole e un volante.
Vogliamo posti nuovi e il marketing tende ad assecondarci, forse perché così è più facile comunicare quella sensazione di novità