Disorientamento? Cefalea? Arrabbiatura? Se avete provato queste sensazioni, accompagnate dalla fatidica domanda “… E adesso?”, con buona probabilità è perché siete incappati in un dead end e non sapete proprio cosa fare per procedere, con quale PNG parlare per far avanzare la missione principale, oppure non riuscite a trovare quell’oggetto utile da consegnare a chi di dovere. Niente paura, capita anche ai migliori, soprattutto quando parliamo dei videogiochi “del passato”. Mi si perdonino le virgolette: non voglio certo ghettizzare, e chi scrive è un inguaribile nostalgico, ma non mi sento di negare i difetti atavici di un medium che – per fortuna – ha saputo evolversi, anche se forse nella maniera/direzione sbagliata.
È con una certa vergogna che ammetto di essere tra quei pochi (?) disavveduti (??) che hanno scartato la sfera di bronzo in Planescape: Torment, non tanto perché l’oggetto non avesse scritto su di sé – a chiare lettere – “very important item”, quanto per colpa della limitatezza dell’inventario a 16 caselle mutuato dal primo Baldur’s Gate. Per ovviare a simili (clamorose) sviste, nel primo The Witcher gli sviluppatori hanno ben pensato di creare degli slot appositi per alloggiare automaticamente gli item di missione, che da qui non possono essere rimossi.
Tornando all’immortale capolavoro di Black Isle e ai titoli suoi contemporanei, c’è da dire che procedere si rivelava a volte “drammatico”, un vero e proprio compitino, tesi a trovare la via in mappe labirinitiche (Daggerfall) o quel PNG in possesso di informazioni chiave. Altresì, quante volte abbiamo dovuto ricominciare la partita perché le apparentemente infinite possibilità di personalizzazione dell’avatar si traducevano in “classi” che non trovavano applicazione pratica nell’universo di gioco? Ad esempio, completare l’epica con un personaggio melee era quasi impossibile in Fallout 2, e soprattutto si rivelava esperienza estremamente frustrante.
I giochi del passato erano tarati per pubblico più paziente e con decisamente più tempo a disposizione
E così, oggi, a mo’ di “compensazione”, abbiamo punti esclamativi gialli che galleggiano sulla testa dei quest giver (Dragon Age II) e personaggi che sono in grado di fornirci tutte le informazioni necessarie, dando luogo a scene di intermezzo pennellate da un taglio registico autoriale. In molte avventure contemporanee è persino possibile evidenziare ogni hot spot e gli oggetti presenti in una schermata con la semplice pressione di un tasto; come estremo, però, siamo arrivati a quei titoli che in pratica si risolvono da sé. Nei giochi di ruolo attuali il passaggio di livello – un tempo pratica laboriosissima – comporta solamente un aumento di salute (ed, eventualmente, mana e stamina) e l’assegnazione di un punto da spendere nelle abilità del personaggio. Questa facilitazione non è altro che la “risposta” a quei titoli à la Fallout che ho già citato in apertura, e di cui UnderRail è recentissimo esponente. Ancora, abbiamo preziosissime mini mappe, bussole, indicatori, frecce di direzione e quant’altro a segnalare – chiaramente – “Per dove dobbiamo andare” (cit.).
Ben vengano le semplificazioni, dunque? Verrebbe naturale rispondere “sì”, perché sovente la “difficoltà” di un videogioco era legata a situazioni come quelle illustrate, che non potevano certo accompagnarsi all’aggettivo “onesto”, e che confinavano con un vero e proprio “trolling” ai danni dell’utenza. Tuttavia, se la direzione intrapresa non ci piace, dobbiamo obiettivamente ascrivere la colpa proprio ai giochi del passato (i cui innegabili meriti sono già stati discussi in questo editoriale), che erano tarati per un pubblico più paziente e con decisamente più tempo a disposizione.