Dead Cells: sinergia idiosincratica

Dead Cells, un cerchio che si chiude tra influenze, tributi e improbabili ibridazioni. Andata e ritorno dal Castello di DraculaDead Cells

Dopo quasi un decennio di letargo pare proprio che Konami si stia lentamente risvegliando, un po’ come Dracula e il suo castello in una delle sue serie più rappresentative. Certo, a giudicare dalla presentazione di Silent Hill 2 Remake e della scelta di affidarlo a Bloober Team, c’è chi ha più di qualche perplessità su questa rinascita, ma per queste valutazioni ci sarà tempo e modo. D’altro canto, per quanto riguarda Castlevania era difficile immaginare una scelta migliore rispetto a quella di affidare la licenza a Motion Twin/Evil Empire, in attesa di vedere se – ma i dubbi sono pochi – e soprattutto a chi toccherà sviluppare un vero e proprio nuovo capitolo, e in che forma.

Sin dalla sua nascita, Dead Cells non ha mai nascosto il debito nei confronti della serie Konami, ravvisabile a partire dalla cover art e chiaramente percepibile in-game attraverso numerosi easter egg, trovate come il pollo per recuperare vita, armi come la Valmont Whip e intere location come la Torre dell’Orologio. Più in generale è la stessa impostazione di base a presentare diverse affinità: si parla in ogni caso di action platformer a scorrimento orizzontale con enfasi su combattimenti all’arma bianca, una corposa componente simil-ruolistica di costruzione delle build, abilità sbloccabili con cui accedere ad aree precedentemente inaccessibili, e così via. Non è un caso insomma che il gioco si presenti esplicitamente come un “rogue-vania.

Dead Cells

Già, una vera coincidenza…

Ma come si fa a coniugare un genere come quello dei metroidvania, che fa del level design rigidamente controllato, minuziosamente progettato per accompagnare una palpabile progressione mediante un intelligente posizionamento di abilità e potenziamenti, con uno che invece trova il suo fondamento nella generazione procedurale dei livelli e nel permadeath? Non sembra una buona idea, e non sono mancati esempi che hanno dimostrato i limiti di questo tipo di commistione. Mi viene in mente Chasm, un metroidvania che si proponeva di rinfrescare la formula rendendo ogni partita diversa dall’altra attraverso la generazione procedurale del mondo di gioco, che ha finito però per generare un’ampia varietà di mondi anonimi e poco interessanti da esplorare. Un primo modo per limitare questa disarmonia può essere sicuramente dosare l’amalgama di contenuti procedurali e disegnati a mano, in modo da garantire un buon senso di coesione del mondo di gioco pur nella sua variabilità. Un po’ come visto nel recente Returnal, altro roguelite con elementi metroidvania, in cui le stanze sono tutte create a mano e poi combinate proceduralmente in ogni partita.

i metroidvania sono caratterizzati da un level design ben ragionato, e all’apparenza questo sembra cozzare con la proceduralità dei roguelike

Dead Cells utilizza un approccio un po’ diverso, chiaramente anche per il diverso budget dietro al progetto, ma tenendo in ogni caso le briglie ben strette, limitando notevolmente la libertà dell’algoritmo. In modo non dissimile da quanto fatto da Derek Yu in Spelunky, ogni livello ha una struttura basilare che è stabilita a priori, ma all’interno di questo framework l’algoritmo genera casualmente le diverse stanze che andranno concretamente a comporre la mappa in ogni singola istanza (chiaramente sto semplificando, per chi volesse approfondire lascio qui il link a un post in cui Sébastien Bénard, il lead designer, spiega la questione nel dettaglio).

Per rendere il risultato ulteriormente organico e tentare di trasmettere un senso di coerenza del mondo di gioco pur nella sua variabilità, ogni livello — o bioma, in gergo — presenta una differente struttura di base, diverse particolarità e differenti stanze uniche disegnate a mano: in ogni run, quindi, le fogne avranno sempre una struttura labirintica e claustrofobica, fatta di cunicoli stretti e pozze velenose, mentre la torre dell’orologio si estenderà sempre in verticale, con la stanza dell’orologio invariabilmente presente in cima.

L’altro elemento di inconciliabilità è rappresentato dalla progressione. Anche qui Dead Cells cerca di trovare un punto di equilibrio tra il progressivo incremento di potenza che è alla base di molti metroidvania e il loop di gioco dei roguelike, che si fonda invece sull’azzeramento dei progressi alla morte, mediante l’inserimento di una serie di potenziamenti permanenti che consentano di mantenere un senso di progressione rendendo le morti meno punitive. Il rischio di questo tipo di design, che non si è certo inventato Dead Cells, è quello di rendere il completamento della run più questione di grinding che non di abilità, andando a svilire il senso di graduale dominio delle meccaniche di gioco che rende ad esempio così soddisfacente e memorabile il riuscire a portare finalmente a termine una Hell run in Spelunky. È quanto accade in giochi come il primo Rogue Legacy, in cui le prime run sono chiaramente “truccate”, ed è sostanzialmente necessario grindare per diverse ore prima di avere qualche possibilità di arrivare a finire una run.

l’elemento di backtracking è presente anche in Dead Cells, ma con una forma diversa: per tornare indietro e sbloccare gli accessi prima a noi preclusi dovremo… morire!

Fortunatamente non è il caso di Dead Cells, che riesce sì ad alleggerire le morti dando un senso di progressione costante e degli obiettivi intermedi a cui puntare, ma senza rendere i potenziamenti permanenti lo scopo principale di ogni run, che resta sempre quello di cercare di arrivare alla fine. Sempre richiamando il design dei metroidvania, mentre si attraversano i livelli capiterà spesso di incappare in elementi dello scenario con cui è impossibile interagire o in ostacoli insuperabili: strane piante, sarcofaghi, alture troppo alte per essere raggiunte con un semplice doppio salto o pavimenti apparentemente indistruttibili sotto i quali si intravede un percorso alternativo. Proseguendo nel corso dei livelli si acquisiranno delle rune, potenziamenti che permettono proprio di interagire con gli elementi dello scenario sopracitati. Ma come tornare indietro, considerato che una volta abbandonato un livello non è possibile rientrarci? Ovviamente, morendo.

La morte diventa così una forma di backtracking, non più (solo) un fallimento, ma anche un’opportunità. Se in Hades qualche anno dopo i Supergiant hanno provato a rendere la morte un elemento inserito nel flusso narrativo, un modo per assistere a nuovi sviluppi e portare avanti sidequest o rapporti con gli NPC, in Dead Cells la morte diventa un’occasione per sperimentare nuovi percorsi e accedere ad aree precedentemente inaccessibili. Nonostante questi elementi, parlare di Dead Cells come di un metroidvania resta piuttosto forzato. Innanzitutto perché la struttura dei livelli è sempre sostanzialmente lineare, con un percorso principale e delle diramazioni che però non si riconnettono mai tra loro (ad eccezione che nel Castello di Dracula del recente DLC, che proprio in onore della serie Konami è il primo bioma in cui l’algoritmo genera mappe con percorsi interconnessi).

AL NETTO DEI NUMEROSI PUNTI DI CONTATTO, PARLARE DI DEAD CELLS COME DI UN METROIDVANIA RESTA PIUTTOSTO FORZATO

Va poi considerato che solo nelle prime ore di gioco è presente questo loop di scoperta ostacolo insuperabile, ritrovamento di una runa, backtracking tramite morte, sblocco di un nuovo percorso. Una volta ottenute tutte le rune, cosa che accade relativamente presto nel contesto di un gioco che mira ad essere infinitamente ri-giocabile, tutti i percorsi restano sempre accessibili. Insomma, gli elementi metroidvania sono piuttosto abbozzati e rappresentano più che altro una nota di colore per dare al giocatore degli obiettivi intermedi a cui puntare, garantendo un senso di progresso costante che attenui il peso delle morti.

Dead Cells

Dead Cells resta principalmente un roguelite, oltretutto uno dei più riusciti degli ultimi anni. Ciò che lo rende tale è innanzitutto la variabilità della singola run, non solo e non tanto per la generazione procedurale dei singoli biomi, quanto per la notevole varietà di percorsi possibili nel corso della partita: basti pensare che in ogni run si affrontano al più 7 o 8 biomi, mentre il totale di questi attualmente disponibili ammonta a 24, senza contare i boss. Va da sé che questa ampia scelta di percorsi contribuisce a far sembrare ogni run diversa dalle altre, sensazione accresciuta dalle tante opzioni concesse dal gioco in termini di approcci e build. Nel caos generato dalla casualità di armi, statistiche e attributi, al giocatore è concesso un discreto margine di controllo attraverso la possibilità di “re-rollare” gli oggetti in vendita nei negozi, oltre che gli attributi (ad esempio gli status inflitti) degli oggetti posseduti alla fine di ogni livello, nel tentativo di completare la propria build sfruttando le tante possibili sinergie.

Dead Cells non è un action a cervello spento: anzi, richiede al giocatore di compiere continuamente decisioni importanti

Al giocatore è quindi richiesto un costante decision making. Ad esempio va deciso in quale bioma avventurarsi, scelta da prendere tenendo a mente anche il boss a cui si andrà incontro in funzione della propria build. Oppure, quali statistiche incrementare attraverso le pergamene sparse nei livelli, scegliendo se concentrarsi su una sola statistica per massimizzare le potenzialità offensive o se mantenere un maggior bilanciamento per incrementare i punti vita, o magari per tenersi aperta la possibilità di cambiare del tutto build. O ancora, meglio esplorare meticolosamente ogni anfratto del livello in cerca di oggetti e risorse, o puntare ad arrivare rapidamente all’uscita per poter aprire le porte a tempo presenti nelle transizioni tra un bioma e l’altro? In questo modo viene sempre incentivato un approccio proattivo, sicché anche dopo decine e decine di ore di gioco non si abbia l’impressione di andare avanti per inerzia.

Dead Cells

Aiuta in questo senso che sia che si decida di puntare su armi dalla distanza, da mischia, scudi e parry, build basate sul veleno o sul ghiaccio, Dead Cells resta una gioia da giocare grazie alla sua anima action magnetica e travolgente. Pochi action bidimensionali sono in grado di trasmettere lo stesso game feel, quella qualità intangibile e non del tutto formalizzata che rende anche la più semplice interazione soddisfacente, un misto di vari elementi tra cui responsività dei controlli, feedback dei colpi e fluidità delle animazioni. In questo, più che Castlevania tornano in mente le movenze di un certo Ryu Hayabusa, in un’altra serie di celebri action platformer per NES.

Pochi action sono in grado di trasmettere le sensazioni di Dead Cells, quella stessa qualità intangibile e non del tutto formalizzata

Dulcis in fundo, il gioco è ricco di meccaniche che si potrebbero concettualmente inserire nel filone del cosiddetto “push forward combat” popolarizzato da DOOM (2016): ogni volta che si subisce danno si ha un breve lasso di tempo in cui attaccare il nemico consente di recuperare tutti o parte dei punti vita, in modo non dissimile da quanto visto in Bloodborne, mentre uccidere un gruppo di nemici in sequenza consente di ottenere un bonus di velocità della durata di 10 secondi, prolungabili continuando a uccidere nemici. Anche in questo caso, Dead Cells fa di tutto per spingere il giocatore a mantenere uno stile di gioco proattivo e non passivo, a sfrecciare rapidamente tra i livelli eliminando un nemico dopo l’altro, in una frenetica danza di morte che lo rende uno dei titoli più capaci di generare uno stato di flow in cui perdersi completamente.

Insomma, Dead Cells non sarà in tutto e per tutto il vero erede di Castlevania, o quanto meno dei Castlevania a firma Igarashi, ma ha saputo richiamarne alcuni elementi amalgamandoli con altri apparentemente antitetici, realizzando una sinergia unica e decisamente efficace. In questo senso il recente Return to Castlevania non può che rappresentare la perfetta chiusura del cerchio, un omaggio a ciò che è stato e, chissà, magari un augurio per quel che sarà. Intanto, possiamo goderci la nuova versione di Bloody Tears.


Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.

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