In un contesto videoludico di audaci esperimenti e saghe che si reinventano, è interessante osservare come un genere versatile come il survival horror finisca sempre per tornare a sé stesso. Più o meno.
Tomb Raider e Final Fantasy sono state per un lungo periodo esperienze abbastanza codificate e in linea di massima offrono un’esperienza prevedibile: in Tomb Raider esplori tombe in terza persona, in Final Fantasy combatti cattivoni in mondi immaginifici. Solo in tempi recenti i due franchise si sono esposti a discussioni su quanto si siano allontanati dal concept originale. I survival horror invece partono sin dall’inizio da una situazione più liquida e hanno vissuto cambi di rotta drastici dentro intervalli di tempo più brevi, sia all’interno di saghe, sia in quanto progetti originali. Uno scenario così variegato che, per esempio, un gioco a inquadrature semifisse, un “sopra la spalla” e uno in prima persona possono uscire più o meno nello stesso periodo e ritagliarsi ciascuno la propria nicchia. Ma dato che siamo in vena di trascorsi storici, parliamo un po’ della trinità del genere survival horror, di come sono cambiati negli anni e infine, di come tendano a muoversi in cerchio, seppur in modi diversi.
DA SOLI NELL’OSCURITÀ (DEI REBOOT)
Alone in the Dark è il gioco che è da molti riconosciuto come il padre del genere survival horror. Si tratta di un’avventura investigativa a inquadrature fisse nel classico setting di casa stregata, con puzzle da risolvere e mostri da cui guardarsi le spalle. Ideato da Frédérick Raynal nel 1992 negli uffici dell’allora Infogrames, il franchise si trova oggi nella situazione di ritrovare sé stesso dopo un altalenante percorso. Dopo un inizio provvisto di una certa continuità (sebbene nessun sequel fosse in grado di replicare l’impronta lasciata dal primo) negli anni lo sviluppo passò nelle mani di differenti studi con risultati audaci, ma anche sfortunati. Dopo il primo iconico capitolo ci furono due sequel che ripresero lo stile grafico fumettoso e la struttura di gameplay generale, tuttavia proponendo un’atmosfera meno lovecraftiana e più d’azione, nei limiti tecnologici del tempo. Nel 2001 avvenne una prima rivoluzione drastica, con un quarto capitolo che rifiuta i numeri, preferendo invece qualcosa che indicasse le sue intenzioni di rinnovare.
ALONE IN THE DARK: THE NEW NIGHTMARE VIRAVA LEGGERMENTE VERSO L’ACTION MA SENZA PERDERE L’ATMOSFERA HORROR
Segue poi per la serie un lungo riposo fino al 2008, con un’opera di Eden Games che mi ha molto appassionato, ma che sento anche di inserire nel faldone dei giochi “ma perché si chiamano così?” A maggior ragione per il fatto che il gioco si chiamava semplicemente “Alone in the Dark” senza alcun numero o titolo secondario, quel tipo di nomenclatura che rifiuta il fatto di non essere il primo, di dovere qualcosa ai predecessori, fosse anche solo il titolo. L’azione si sposta nientemeno che a Central Park, l’inventario è un innovativo sistema realistico dove non possiamo portare nulla di più di ciò che sta nelle varie fondine e tasche, l’esplorazione è aperta con tanto di veicoli guidabili e i puzzle sono perlopiù ostacoli da risolvere con pensiero pragmatico.
IL CAPITOLO DEL 2008 ANDAVA A RICERCARE L’IMMERSIONE CINEMATOGRAFICA
Di conseguenza la serie finì in un lungo letargo fino a oggi, con lo studio svedese Pieces Interactive che ci propone un nuovo inizio, stavolta più vicino ai classici. L’azione torna di nuovo nella villa Derceto degli anni ’20, ingaggiando per l’occasione attori reali quali David Harbour e Jodie Comer a prestare il volto ai protagonisti originali. Sicuramente ne è venuto fuori un capitolo più pulito dell’esperimento del 2008, più conservatore, più ricercatore delle proprie origini. Nella speranza che i problemi tecnici vengano risolti presto con una patch, chissà che non sia la volta buona per il franchise di ricostruire qualche fondamenta solide da cui ripartire.
I CATTIVI RESIDENTI FRA SOFT REBOOT, SPIN-OFF E FILM
A proseguire il genere con costanza (perlomeno nel senso di capitoli usciti frequentemente) c’è invece Resident Evil, che dal ’96 a oggi ne ha provate di tutti i colori. Iniziato con una trilogia relativamente circoscritta che esplorava i classici archetipi sugli zombi, si è poi diramata in convolute trame di stampo spionistico/militare e individui ormai diventati semidei al prezzo di improbabili intrugli chimici che hanno assunto. Un universo narrativo nel quale questa scena e questa coesistono. Spaziando da survival horror con inquadrature fisse, fino ad arene multiplayer, passando per gli sparatutto su binari. Un paio dei quali (Umbrella Chronicles e Darkside Chronicles) raccontano retroscena importanti su eventi chiave nella serie, quali il colpo di grazia alla Umbrella Corporation e la connessione tra Leon e Krauser che dà maggiore contesto al loro scontro proposto in Resident Evil 4.
Più di ogni altro, il quarto capitolo di resident evil fu uno spartiacque
Dopo un sesto capitolo principale nel 2016 che esasperava la formula d’azione al punto da introdurre persino inseguimenti ad alta velocità giocabili, un’altra derapata correttiva arriva da Resident Evil 7, che ricerca invece le origini. Abbandonati i negozi, abbandonate le sequenze acrobatiche, abbandonato persino tutto il cast di personaggi originale, l’azione torna in una sperduta magione dalla quale scappare. Con visuale in soggettiva, prima volta in un capitolo principale. E il ritorno dei bauli in cui riporre e recuperare oggetti. Il suo seguito diretto sembra non poter rinunciare a reintrodurre una formula già più movimentata: valigetta con minigioco di organizzazione dell’inventario, improbabili venditori di armi, arsenale a doppia cifra e cattivi pittoreschi, figli anche delle suggestioni est europee dell’ambientazione. Nel mentre vengono rifatti Resident Evil 2 e 3, con successi alterni.
È difficile rispondere alla domanda “che cos’è Resident Evil?”
Di certo Resident Evil si pone come una serie che ha molta stima del proprio passato, ma mi rimane la sensazione che le sue differenti anime stiano facendo a botte in un box troppo stretto per contenerle tutte. Da Konami ci arriva invece un approccio opposto, dove i potenziali box sono infiniti…
COLLINE SILENZIOSE E VARIEGATE
Beh, ci siamo. È arrivato il primo gameplay trailer di Silent Hill 2 Remake e… cameriere, perché c’è del combat nel mio survival horror? Ho difeso Bloober Team con entusiasmo nei loro sforzi nel mondo dei videogiochi e trovo ancora ingiuste alcune critiche che gli sono state rivolte. Tuttavia, non posso che unirmi al coro dei perplessi nel momento in cui questo classico si ripropone ponendo l’accento sul combattimento.
LASCIA PERPLESSI L’ACCENTO CHE, A GIUDICARE DAL TRAILER, SILENT HILL 2 REMAKE PONE SUL COMBATTIMENTI
Questo combat trailer ha dato quindi impressioni molto fuori fuoco sia nelle intenzioni, che nel dettaglio di alcuni momenti. Ambientazioni più spaziose, messaggi espliciti anziché suggeriti e nemici che scavalcano ostacoli atleticamente hanno alzato diverse sopracciglia agli appassionati del classico che si basava su equilibri delicatissimi. Gli altri progetti connessi a Silent Hill possono invece spaziare verso l’infinito e oltre visto che, per la seconda volta, Konami sta tentando di rilanciare il franchise senza imporre nessuna briglia particolare agli sviluppatori che si propongono. La serie ha sempre avuto una natura “antologica” dato che gli unici capitoli della serie ad essere collegati direttamente sono il primo e il terzo. Tuttavia, sino a The Room uscito nel 2004, lo sviluppo era sempre stato in mano a un singolo team e vi era una certa continuità estetica.
Accadde poi che il Team Silent venne sciolto e il franchise fu disperso ai quattro venti nel tentativo di rilanciarlo facendo l’occhiolino a un pubblico occidentale. Per l’occasione vennero ingaggiati team occidentali. Homecoming di Double Helix Games tentava di rifarsi al film e proponeva una storia dai toni decisamente più hollywoodiani. Downpour di Vatra Games provava dei timidi esperimenti open world e reinterpretava la cittadina come costantemente oppressa da un acquazzone anziché nebbia. Shattered Memories di Climax Studios adottava un nuovo sistema di gioco basato su zero armi e atletiche fughe in labirinti ghiacciati. Sempre da parte loro arrivò Origins, che era un esperimento più classico orientato alla piccola PSP. Per Vita arrivò invece, da WayForward Technologies, Book of Memories, un dungeon crawler. E in mezzo uscirono anche pachinko e graphic novels, alcune pure di pregevole gusto artistico.
Ma cosa accomuna i vari esperimenti tentacolari di Silent Hill? Beh, a questo punto non saprei. Non saprei trovare una linea rossa che colleghi tutti i giochi usciti sinora e ormai è il franchise a non ricercare nemmeno la minima continuità. Emblematica in tal senso è la “seconda tornata” di questo approccio. Ascension, il progetto cooperativo tra diverse realtà cinematografiche e The Short Message di Hexadrive non hanno fatto breccia nel cuore degli appassionati e gli annunciati Silent Hill Townfall di Annapurna Interactive e Silent Hill f di NeoBards Entertainment sembrano voler proseguire su una linea ancora più astratta e separata tra i vari progetti.
IL RISCHIO DI UNA PROPOSTA COSÌ VARIEGATA È CHE SI PERDANO LE SUE ORIGINI
Rispetto alla “sovrapposizone” dei reboot periodici di Alone in the Dark e all’ingrovigliato pasticcio di Resident Evil, in un certo senso l’approccio di Konami risolve un problema alla radice: nessuno può lamentarsi della continuità narrativa e stilistica, se non c’è in primo luogo. Silent Hill si ritrova oggi in una situazione simile a quella dei fumetti su icone ultradecennali, dove numerosi autori sono addosso contemporaneamente agli stessi personaggi, potendo modellare i punti cardine a seconda di cosa hanno bisogno per raccontare la loro vicenda. Punti cardine che alla fine ci sono sempre, il problema insolvibile è mettersi d’accordo su quali siano.
Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.