Da Tomb Raider a Final Fantasy, nomi videoludici nati nei primi anni ’90 sono ancora qui a prendere il palcoscenico. Ma sono ancora loro a creare le mode, o stavolta le stanno seguendo?
Spesso trovo che ci sia un qualcosa di fondamentalmente sbagliato in produzioni televisive che hanno più di otto stagioni. Di forzato. Arrivo al punto in cui a stento riconosco l’origine della storia. A vedere di seguito la prima stagione e l’ultima a malapena trovo collegamenti narrativi, di solito quello che rimane sono pallidi riferimenti nell’atmosfera generale. Mi trovo a pensarla in modo simile anche per quanto riguarda i videogiochi. E del resto come potrebbe essere altrimenti? Con gli anni passa il tempo, ma con i decenni passano le generazioni. Nuove generazioni di giocatori si appassionano a cose diverse, nuove generazioni di game designer vogliono, comprensibilmente, fare la loro cosa, anche se si trovano in mano un franchise nato molto tempo prima e che quindi in teoria traccia dei sentieri chiari. Molte saghe che hanno fatto la storia del videogioco sono assolutamente consapevoli della loro longevità e anzi, proprio per quello il nome viene ancora sfruttato. È però per loro una grande sfida rinnovarsi continuamente tentando (o a volte no) di mantenere la propria identità, e ciascuno tenta di fare contenti tutti in modi diversi.
PREDATORI DI TOMBE E REBOOT PERIODICI
Abbiamo parlato qualche tempo fa di un gioco ambientato su un’isola non segnata dalle mappe che insiste nel farsi chiamare Tomb Raider. Ecco, questo franchise si trova in una situazione di crisi d’identità, specie ora che sono uscite le remaster dei primi tre classici, con il sistema tank control che, se da un lato non è immediato da digerire, è anche vero che i primi sei capitoli della saga furono costruiti proprio con questo sistema di movimento in mente. Difficile separarlo dal gioco perché per molti versi È il gioco. Un gioco dall’ambientazione archeologica con punte horror, che però si fruisce tramite un sistema matematico. Un mondo fatto a cubi dove buona parte dell’impegno richiesto al giocatore era trovare percorsi, calcolare gli spazi per le rincorse e scegliere che tipo di salto usare a seconda delle situazioni. Persino la trilogia Legend-Anniversary-Underworld, benché provasse a mantenere l’atmosfera, a volte non centrava bene il bersaglio esplorativo dei classici. Con questo termine stiamo intendendo i Tomb Raider sviluppati da Core Design, che trovano un brusco taglio con Angel of Darkness nel 2003, conclusosi con un cliffhanger destinato a rimanere tale.
ANGEL OF DARKNESS PROVAVA A RINNOVARE LA FORMULA, INTRODUCENDO ANCHE UN SECONDO PERSONAGGIO GIOCABILE
La successiva trilogia, passata in mano a Crystal Dynamics, decise invece per un taglio netto nel 2006. Lara si presentava con una vicenda più semplice e un gameplay più fluido, ma che ancora aveva l’atmosfera generale dei classici. Legend in particolare aveva scelto una curva di difficoltà semplice e alcune sequenze di inseguimento e sparatoria esagerate, ma già in Anniversary e Underworld ritornò la necessità di dover osservare lo scenario e capire i tempi e i modi di un salto, onde evitare di spalmarsi al suolo dopo cadute da decine di metri o cadere trappola di marchingegni letali. L’unica nuova introduzione di notevole importanza fu il rampino magnetico, che aggiungeva una nuova verticalità alle situazioni.
PER CHI ARRIVA DAI CAPITOLI CLASSICI, È INEVITABILE PROVARE UN SENSO DI DISSONANZA DI FRONTE AL REBOOT DEL 2013
Tuttavia, progettare un videogioco è molto spesso l’arte del compromesso e Tomb Raider è quella cosa che deve piacere un po’ a tutti. Piacere a tutti significa andare incontro alle tendenze del momento, che erano l’open world e azioni altamente cinematografiche che non richiedono troppo impegno da parte del giocatore, in modo che la scena non venga “spezzata”. Fu questo a definire il gameplay e fu questo anche a remare contro a un’idea narrativa, quella di raccontare le origini di Lara, lodevole nelle intenzioni ma fallimentare nell’esecuzione. Questo personaggio non è la stessa antieroina dai fondi illimitati che è disposta ad affrontare T-Rex e mercenari armati fino ai denti pur di portarsi a casa l’artefatto di turno. Non fa questo perché vuole. La nuova Lara lo fa perché è costretta e successivamente perché coinvolta a livello personale. Innesti narrativi che finiscono per contraddire la natura originale del personaggio, una natura più cinica, indipendente e grigia. E diciamolo, più atipica nel gaming.
le remaster sono qui per ricordarci chi è Lara e come è nata
Nel mentre, io la butto lì, ci sono The Last Revelation, Chronicles, Angel of Darkness da rimasterizzare con budget modesto e perché no, già che siamo in ottica di revival e stiamo riscoprendo giochi più piccoli e focalizzati, in Angel of Darkness c’è quel cliffhanger in sospeso… e insomma, adesso che abbiamo visto che i tank control e una grafica semplice possono ancora piacere…
FANTASIE FINALI: C’È CHI PUÒ
Final Fantasy è una coppia di parole che diventa un ossimoro nell’istante in cui gli si aggiunge anche solo un 2, figurarsi un XVI. È vero anche però, che ogni capitolo fa storia a sé e i collegamenti tra uno e l’altro sono dati solo da legami molto laschi quali “evocazioni” e “cristalli”. La stessa definizione di cos’è un Final Fantasy accende tuttora molte discussioni, con pareri spesso inconciliabili. L’appassionato di narrativa preferisce FFVI perché fece un lavoro gargantuesco nel gestire un cast di 14 (!) personaggi giocabili, quasi tutti essenziali per la sequenza di eventi. Lo storico indica FFVII come gioco che cambiò la scena del gaming per sempre nel 1997. L’appassionato di action ipercinetici dirà FFXVI, un capitolo che è stato molto divisivo proprio per il suo sbilanciarsi così tanto verso una formula d’azione.
Ora, va anche detto che il decimo capitolo nel 2001 fu l’ultimo a rivolgersi a un sistema a turni tattico, con tutto il tempo per ponderare la prossima mossa e goderne il successo o pagarne le conseguenze [NdR: in realtà Final Fantasy X fu a sua volta una mezza rivoluzione, visto che appunto abbandonò la tradizionale Active Time Battle a favore di un sistema a turni]. Si aprì poi un periodo di sperimentazione laddove ogni nuovo capitolo introduceva dinamiche nuove, da multiplayer online, a sistemi a turni che sfruttavano anche la spazialità, alla barra dello “stagger”, che ormai è diventato un recente pilastro su come ragionare i combattimenti nella serie. Ma il vero punto di rottura fu Final Fantasy XV, che infatti nasceva originariamente come spin-off. Proponeva un sistema spettacolare nella messa in scena, ma così basilare nell’esecuzione che viene ritenuto a ragion veduta uno dei capitoli più “rotti” del franchise, a fare compagnia a quel bizzarro esperimento che fu l’ottavo capitolo.
IL VERO PUNTO DI ROTTURA CON LE TRADIZIONI FU FINAL FANTASY XV
Final Fantasy XVI ha proposto l’anno scorso un nuovo sistema completamente basato su azione iperattiva. Il gioco rinuncia a ogni finezza preparatoria da organizzare prima del combattimento, mettendo da parte persino debolezze elementali e quasi tutte le alterazioni di avvelenamento / lentezza / cecità / mutismo e varie che sino a quel punto nella serie contribuivano a definire mostri iconici e obbligavano il giocatore a rivedere periodicamente le proprie tattiche. L’unico effetto da ricercare in combattimento diventa quindi portare l’avversario nel cosiddetto stato di “stagger” (stordimento) per poi legnarlo malissimo con tutte le tecniche che possano fargli più danni possibili in poco tempo, usando uno stile di combattimento che ricorda tantissimo Devil May Cry (che non a caso ha lo stesso combat system designer del quinto capitolo, Ryota Suzuki). Non dubito che Final Fantasy XVI possa comunque rivelarsi un’esperienza soddisfacente per gli appassionati del genere action, qui non sento di avere abbastanza esperienza nello stesso per espormi. Né a questo punto voglio sindacare su che cos’è un Final Fantasy, è semplicemente qualsiasi cosa la produzione di turno sostiene che sia. Mi va bene. Il JRPG però, che in Final Fantasy è stato una costante di 10 capitoli principali su 16 più svariati spin off, è molto più chiaro nella sua definizione. Un japanese role playing game viene definito, in proporzioni variabili, da:
- una squadra di personaggi;
- pianificazione in anticipo del loro equipaggiamento e skill;
- sistema di crescita con gestione dei tratti da migliorare;
- mondo aperto da esplorare, con attività principali e opzionali di vario tipo;
- sistema di affinità e debolezze che prevede lo studio dei punti deboli del nemico per colpirlo dove fa più male.
Scoprire che queste componenti sono in secondo piano o perfino assenti è stato strano per me. Sì, ci sono negozi d’armi e crafting, ma non c’è mai un vero dilemma su quale equipaggiamento utilizzare. C’è un sistema di livelli, ma nessun modo di influenzarlo. Ci sono moltissime mosse da imparare, ma a un certo punto diventa chiaro quali soluzioni funzionano di più. C’è un avvincente cast di personaggi che anche seguiamo nelle loro peripezie, ma quando è ora di giocare siamo sempre con Clive, al netto di, letteralmente, un paio di eccezioni.
DEVO ESSERE ONESTO: MI MANCANO I TURNI IN UN FINAL FANTASY
Capiamoci, una serie ha tutto il diritto di rivoluzionarsi come vuole. Il mio punto è un altro. Tomb Raider e Final Fantasy sono opere diversissime tra di loro, ma negli ultimi anni mi hanno fatto sentire in modo simile: mentre ne giocavo i capitoli più recenti percepivo la ricerca di un minimo comune denominatore, quello sforzo di fare contenti un po’ tutti adottando formule collaudate, narrazione altamente cinematografica, meno spazio al ragionamento. Al prezzo tuttavia, di rinunciare all’unicità con la quale sono nati e cresciuti. Un’unicità che viene spesso percepita come “vecchia”, tanto da giocatori quanto da operatori dell’industria. Fortunatamente Tomb Raider sta in qualche modo coesistendo con il proprio passato, visto il successo della remaster. Sarei molto sorpreso invece, di vedere ancora Final Fantasy a turni. Ma chissà. La serie di Persona è sempre rimasta su quello stile nei capitoli principali e se la sta passando benone. Il debuttante The Bookwalker ha scelto proprio quel sistema per gestire i suoi rari momenti d’azione. Like a Dragon ha addirittura fatto il percorso inverso di Final Fantasy, partendo da un action RPG per poi ibridarsi proprio con un sistema a turni negli ultimi capitoli. E tutto questo senza nemmeno tirare in ballo il gioco-evento dell’anno scorso, che è Baldur’s Gate 3. Sono i sistemi di gioco a invecchiare male o sono i giocatori a essere sempre meno disposti ad affrontare un’opera nei suoi termini?
Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.