La Nuova Zeldandia: le conseguenze di Zelda nel videogioco di oggi – Speciale

Siamo a Sonobe, Kyoto, in un Giappone nel pieno del Kōdo keizai seichō – il miracolo economico degli anni ‘50 e ‘60 – che adesso non esiste più. Coordinate distanti nel tempo e sovrascritte cartine nello spazio quando Sonobe ha smesso di esistere nel 2006 diventando la città di Nantan. Ma anche con un nome diverso quei luoghi sono sempre lì, sono parte della nostra eredità come giocatori e giocatrici. Sono i luoghi che hanno fatto nascere l’idea di The Legend of Zelda.

Zelda

“Se ci sono delle similitudini, probabilmente derivano dal fatto che The Legend of Zelda è diventato una sorta di libro di testo per i giochi d’azione 3D”. È Hidetaka Miyazaki a metterla in questi termini in una vecchia intervista del 2016. Un anno prima dell’uscita di Breath of the Wild – ben prima che Elden Ring fosse qualcosa più di un’idea – più di qualcuno ha già fatto un ovvio collegamento tra le due serie. Miyazaki ammette un’influenza inconscia di quelle memorie del bambino Shigeru a caccia di caverne e cascate nelle campagne di Sonobe, incise poi su ROM dall’adulto Miyamoto affinché quelle esperienze non potessero venire sovrascritte come successo alla sua città natale. Miyazaki però ne fa un discorso essenzialmente legato alla specificità dei giochi d’azione tridimensionali. Parla dello Z-Targeting di Ocarina of Time diventato il lock-on che abitualmente abbiamo a disposizione oggi. Della progressione scandita attraverso armi e gadget che permettono di esplorare altri dungeon. Miyazaki parla di meccaniche di gioco, forse di level design. Ma l’influenza di Zelda nei Souls è soprattutto una questione di approccio. E va a ripescare i capitoli a due dimensioni.

IT’S DANGEROUS TO GO ALONE = DON’T YOU DARE GO HOLLOW

Il primo The Legend of Zelda è entrato nella storia grazie ad una semplice e allo stesso tempo terribile idea: non prendere per mano chi sta dall’altra parte dello schermo. Link non è Mario, non deve andare esplicitamente da sinistra a destra livello dopo livello finché non raggiunge l’altro castello in cui finalmente salvare la principessa. Link è da solo. Ed è pericoloso andare avanti da soli. È la prima cosa che Shigeru Miyamoto comunica nel gioco: questa frase e una spada di legno sono tutto quello che viene messo a disposizione. È l’abbraccio di una madre che lascia che suo figlio abbandoni il nido e sperimenti il mondo lì fuori con le sue sole forze.

“È pericoloso andare avanti da solo, prendi questa spada”: una frase semplice e terribile, di certo una delle più celebri del medium

La sua guida c’è ancora, è dentro di lui e negli insegnamenti impartiti, così come la mano di Miyamoto si sente ma non si vede attraverso le schermate del gioco, lì apposta per far sì che l’errore diventi parte del suo design. Demon’s Souls in questo non si è inventato nulla, ha soltanto riscoperto un’attitudine che il videogioco aveva nel 1986 e che aveva in buona parte dimenticato, preso com’era dalla sua voglia di (com)piacere. Non si sfugge ai propri geni, nemmeno quando sembrano essere recessivi: di tanto in tanto lungo le linee di sangue dell’albero genealogico torneranno sempre a manifestarsi.

Incredibilmente, una delle frasi più famose della storia del medium.

Sono solo ventitré gli anni che separano Link dall’Uccisore di Demoni. Verrebbe da pensare siano molti di più, ma il calendario non mente e il primo capitolo di Zelda è distante da Demon’s Souls quanto noi in questo momento siamo distanti da Majora’s Mask. Demon’s è il primo prototipo di quella che sarebbe diventata un’anomalia cult e poi all’interno della scena videoludica della settima generazione. L’approccio è filosoficamente molto simile alla prima avventura di Link: un boss virtualmente impossibile da sconfiggere first try, una morte brusca, un abbraccio e poi basta. Solo il design a fungere da guida, strade non indicate da cartelli ma da intuire per esclusione, guardando l’inventario di gioco e il livello dei nemici a schermo. Qualche parola di conforto da parte di NPC chiaramente non pensati per fungere da tutorial, tanto su cartuccia quanto su disco.

È un diamante grezzo Demon’s Souls, molto più grezzo di quanto fosse Zelda e di quanto sarà un paio di anni dopo Dark Souls

È un diamante grezzo, Demon’s Souls. Molto più grezzo di quanto fosse Zelda e di quanto sarà un paio di anni dopo Dark Souls, che non a caso riuscirà dove il suo prequel spirituale falliva diventando un vero e proprio oggetto di culto. È un lavoro di raffinamento che non tradisce il Vangelo secondo Miyamoto, semmai ne mette a schermo una versione ancora più disperata, sostituendo l’eroe e la sua quest per la salvezza del mondo con un inutile idiota a cui non resta che scegliere tra la fine di tutto o il prolungamento dell’agonia. Lordran, Yharnam e Boletaria sono come la Hyrule oppressa da Ganon, terre senza speranza dove il male ha vinto in modo definitivo. Eppure a Hyrule qualcuno si preoccupa ancora per te, e ti dice che è pericoloso andare avanti da soli mentre ti offre la tua prima spada. Venticinque anni dopo a Lordran parole diverse esprimeranno gli stessi sentimenti: “non osare diventare vuoto”. Anche quando è il gioco stesso a combattere contro di te, non perderti. Non perdere quello che ti rende chi sei.

Dark Souls

Questa è meno famosa, ma abbastanza da meritarsi un video essay dedicato che rilegge Dark Souls come allegoria della depressione.

ZELDA & THE LEGEND OF TUNIC

È a questo punto che si entra in un territorio che si esplora da anni senza essere ancora riusciti a delinearne i confini. Dove finisce The Legend of Zelda e inizia Dark Souls? Miyazaki deve più di qualcosa a Miyamoto, ma prendendo il controller in mano è subito chiaro che si sta giocando qualcosa di diverso. È il motivo per cui l’etichetta soulslike esiste e viene utilizzata pur senza un significato preciso, mentre “zeldalike” è rimasta più che altro una definizione colloquiale. Zelda è un contenitore per esperienze accomunate da elementi condivisi che poi si declinano in ludo in modi diversi: ci sono il primo Zelda e A Link to The Past, Ocarina of Time e i suoi emuli (per quanto Majora’s Mask e Wind Waker comunque se ne discostino) e finanche due capitoli che necessitano di essere fisicamente collegati attraverso un cavo… Link per sbloccare le loro meccaniche come Oracle of Seasons e Oracle of Ages. Allo stesso modo comunque è complicato stabilire quanto gli elementi convenzionalmente ritenuti soulslike poi vadano a confezionare un’esperienza inseribile in questo genere. In Tunic, per esempio, c’è più Miyamoto o più Miyazaki?

Miyazaki deve più di qualcosa a Miyamoto, ma controller alla mano è subito chiaro che si sta giocando qualcosa di diverso

L’idea alla base di Tunic è quella di reiterare l’esperienza di Zelda II: Adventure of Link. Non tanto a livello di meccaniche – Zelda II è quasi apocrifo in quelle – quanto proprio a livello esperienziale. Il libretto in-game di Tunic, meccanica fondamentale per riuscire ad orientarsi all’interno dell’esperienza, si rifà in modo palese a quello del gioco uscito su Famicom l’anno dopo The Legend of Zelda. Quell’abbraccio che in Zelda e nei Souls era più che altro implicito nel level design qui si fa più direttamente Verbo, palesandosi in quelle pagine virtuali scritte in una non-lingua che in qualche modo riesce a farsi capire, quasi fossimo turisti che chiedono indicazioni in una città che non ci è per nulla familiare. Rimane comunque un gioco di non detti che lascia al giocatore il compito di sperimentare ed esplorare, e come in Zelda anche qui tutto quello che è visibile a schermo è raggiungibile in un modo o nell’altro. Se non lo è, è semplicemente perché quell’entità che chiamiamo Game Designer ha decretato che non è ancora il tempo. In Tunic però ci sono anche i falò a fungere da check point. Le fiaschette che ripristinano la salute – che però è divisa in cuori e non in barre – come le Estus. C’è anche la corpse run tipica delle esperienze fantasy made in From Software, ovvero i resti del proprio “cadavere” che rimangono lì permettendo di recuperare la valuta in-game che si possedeva prima del game over. Ci sono degli strumenti utili per attraversare i dungeon, ma le boss fight possono risolversi a prescindere da questi – come in diversi dei capitoli di Zelda.

Zelda

Se non è una Hyrule apocrifa questa…

È pericoloso andare avanti da soli. Ironico, considerato che Andrew Shouldice Tunic lo ha realizzato praticamente da solo. Ancor più ironico se si pensa a Tunic come esperienza multiplayer, non abitata da server e messaggi lasciati da altri giocatori bensì dal punto di vista sociale, qualcosa da giocare separatamente ma condividere assieme per poter andare avanti. Difficile rispondere alla domanda se Tunic sia più Zelda o più Souls, soprattutto in un mondo dove il primo ha definito i secondi e poi questi ultimi hanno reclamato la loro emancipazione come fenomeno di costume. Ma gli echi sono evidenti, anche solo per via di quel libretto che forse non è mai stato nelle nostre mani ma è di sicuro ancora nella mia testa.

FIGLI DI UNA HYLIA MINORE

Basterebbe l’influenza su From Software e, di conseguenza, su chi ne ha tramandato il verbo per occupare un posto nel Grande Libro della Storia dei Videogiochi. Ma c’è tantissimo altro videogioco che da The Legend of Zelda ha preso, a volte reinterpretando come ha fatto Tunic, altre volte limitandosi alla cover band che vuole omaggiare i suoi personali riferimenti culturali. A tutti i livelli, indie o Tripla-A non fa tutta questa differenza. Okami alla fine non è altro che Clover Studio che reinterpreta quella Nintendo con cui finirà a lavorare anni dopo nelle vesti di Platinum Games. La mai celata infatuazione di Hideki Kamiya per A Link to the Past che si fa tridimensionale e si lascia ispirare anche dal capitolo immediatamente successivo (bypassando Link’s Awakening), Ocarina of Time. Amaterasu non ha la tunica dell’eroe, ma come Link viene accompagnata da un coprotagonista che funge da voce e di tanto in tanto da guida, come lo era stata Navi nel 1998. Come era Midna nello stesso 2006 di Okami in Twilight Princess, uno dei giochi con cui Clover Studio si contenderà quel Game of the Year portato a casa ma maledetto da un clamoroso insuccesso a livello di vendite.

Zeldandia

Anche in grandi produzione del passato come Beyond Good and Evil si scorgono tracce di Zelda.

Si trovano accenni anche in altre grandi produzioni di quella generazione come Beyond Good and Evil e si ritrova qualcosa, volendolo vedere, anche nel Prince of Persia del 2008. Darksiders è fortemente ispirato alla serie. Ma scendendo nel mondo indipendente c’è una vera e propria esplosione di emuli. Hob della fu Runic Games, rilasciato un paio di mesi prima di alzare bandiera bianca, è il perfetto connubio tra le due anime che hanno lanciato Miyamoto al successo, uno Zelda che spesso e volentieri sconfina nei territori di Super Mario alternando l’avventura al platforming. Hyper Light Drifter, dell’anno prima, riprende di nuovo A Link to the Past e prova a farlo diventare A Link to the Future, immergendolo in un contesto molto lontano nel tempo e nello spazio dalla Hyrule fantasy ispirata dalle campagne di Sonobe.

Grandi e meno grandi produzioni, tripla A e indie: ovunque si possono trovare tracce di Zelda

A Short Hike riprende il feeling esplorativo della saga calandolo in un contesto più morbido, chill, con un vago obiettivo prefissato per la protagonista, ma un sacco di distrazioni che alla fine sono giustificate anche sul piano diegetico. Anche Chicory: A Colorful Tale riprende gli stilemi ludici dettati dalla Dea Hylia, ma li reinterpreta assecondando lo zeitgeist no-punk di questa epoca del videogioco, ovvero mettere a nudo i propri sentimenti e le proprie fragilità. Chicory lo fa in modo genuino, riuscendo a far sembrare semplici cose potenzialmente molto distanti (ma magari invece molto vicine, perché invisibili agli occhi come l’essenziale) da chi sta giocando.

Zelda

Chicory si gioca per il linguaggio inclusivo e le battute sui cul… sederoni. Nell’ordine.

Il regalo più grande che il Miyamoto adulto ci ha tramandato sta in questo, nelle esperienze del bambin Shigeru diventate poi Bibbia del Game Design, fondamento di quel testo sacro che chiamiamo videogioco che a volte ci sorprende semplicemente ritirando fuori qualcosa di cui ci eravamo scordati. La Nuova Zeldandia è questa. Terra emersa come quella che Link inizia a cercare alla fine di Wind Waker e trova nei due capitoli per DS, terra promessa come quella di cui parla l’Antico Testamento. Un posto dove chi sviluppa può dirci chi è e come sta, sapendo che dall’altra parte qualcuno può capirlo. Perché grazie a Link siamo un po’ più connessi.

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