Prima di ogni riflessione tecnica, prima di ogni considerazione riguardante il gameplay, prima di andare oltre il semplice titolo, c’è un’ammissione da fare su RIOT: Civil Unrest. Ci vuole un gran coraggio a realizzare un gioco sulle manifestazioni di piazza, oggi. E poco importa che il progetto sia nato nel 2013, quando nel paese imperversava una clima sociale e politico decisamente più tollerante rispetto a quello odierno. Perché in Italia le manifestazioni di piazza rappresentano da sempre, fin dagli anni ’70 passando per il G8 di Genova, una ferita mai risanata. Provare a impostare un discorso sull’argomento vuol dire essere pronti a finire sommersi da una valanga di critiche preventive, spesso basate sul nulla. Oltre al coraggio, dunque, serve una buona dose di incoscienza o una dotazione altrettanto abbondante di consapevolezza: trattandosi di Leonard Menchiari, l’autore dell’ottimo The Eternal Castle [REMASTERED] di cui vi abbiamo parlato qualche giorno fa, noi opteremmo per quest’ultima.
ALL COPS ARE BASTARDS (?)
RIOT: Civil Unrest è uno degli usi più consapevoli degli strumenti a disposizione del videogioco in cui ci sia capitato di imbatterci in tempi recenti. È la traduzione in videogame di una tesi accademica, che non mira tuttavia a trasmettere un messaggio preconfezionato al suo pubblico, preferendo lasciare al giocatore l’incarico – o l’onere – di formarsi un’opinione in merito. Il tema, come ovvio fin dal titolo, è quello della rivolta sociale, delle manifestazioni pubbliche che diventano terreno di scontro tra due fazioni, manifestanti e polizia, osservate e interpretate da entrambi i punti di vista. Nonostante le accuse di incitazione alla violenza ricevute prima ancora che fosse mostrata una sola sequenza di gameplay, RIOT: Civil Unrest prova a porsi quanto più obiettivamente possibile nei confronti degli eventi reali messi in scena, facendo saggiare al giocatore la difficoltà di gestire situazioni in cui buona parte degli elementi che possono determinare il risultato finale sfugge al suo controllo.
CI VUOLE UN GRAN CORAGGIO A REALIZZARE OGGI UN GIOCO COME RIOT: CIVIL UNREST
Sulla carta,
RIOT è un RTS, ma è decisamente lontano dagli esponenti più classici del genere. Sia dalla parte dei manifestanti che dei poliziotti
non si ha mai davvero il diretto controllo di ciò che avviene sul terreno, se non nelle fasi iniziali di ciascuna missione, quando gli animi sono ancora calmi e l’aria respirabile. Tuttavia, ogni componente di
RIOT collabora alla sensazione di una mancanza di controllo, a partire dall’assenza di un vero e proprio tutorial che illustri le possibilità tattiche e strategiche a disposizione. Se ponendosi al comando degli agenti di polizia questa mancanza si avverte decisamente meno, poiché
la loro gestione ricorda più da vicino quella classica con unità specializzate in diversi compiti, dalla parte dei manifestanti servono alcune missioni per comprendere appieno l’apporto del megafono sul morale del gruppo o l’utilità del sedersi al suolo con le mani alzate. Come anticipato in precedenza, e contrariamente a quella che potrebbe essere la sensazione a pelle,
ogni strumento di gameplay viene utilizzato da RIOT per trasmettere un messaggio al giocatore: ritrovarsi su quello che in breve diverrà un campo di battaglia senza informazioni e disposizioni è la modalità più diretta per far comprendere anche a chi non ci è mai stato, come manifestanti e forze dell’ordine si ritrovino nella maggior parte dei casi a gestire queste situazioni.
È un approccio coraggioso, ancora una volta, perché facilmente fraintendibile, eppure incredibilmente efficace, poiché anche chi si è trovato almeno una volta da uno dei due lati della barricata ignora quasi del tutto quali siano le dinamiche e le sensazioni della fazione opposta.
CHE REGNI IL CAOS
Lo scarto definitivo dai tradizionali strategici in tempo reale tuttavia avviene nel momento in cui le fazioni in campo arrivano al confronto, necessario per il raggiungimento del proprio obiettivo, spesso speculare a quello dell’avversario: mantenere la posizione o sgomberare il campo. La differenza principale deriva dalla diversa concezione delle divisioni, non blocchi monolitici pronti a rispondere all’unisono ai nostri comandi, ma gruppi di individui, ciascuno dotato di una propria emotività e capace di rispondere in maniera diversa allo stress. Quando volano le prime pietre o i manganelli iniziano a scendere sulle prime file, non si può prevedere come reagiranno i propri uomini, ma solo agire ex post, provando a contenere la confusione e riorganizzare le fila per ritrovarsi nella posizione desiderata entro la scadenza del timer. Attraverso un sistema di controllo a tratti enigmatico, farraginoso e poco reattivo (sarà anche questa una scelta?), ci si ritrova ad impartire ordini non più a un gruppo, ma a una moltitudine di individui, sparsi per lo scenario e per lo più sopraffatti dalla paura, dallo sgomento o dalla rabbia, e perciò poco propensi a obbedire.
SULLA CARTA, RIOT È UN RTS, MA È DECISAMENTE LONTANO DAGLI ESPONENTI PIÙ CLASSICI DEL GENERE
Ogni missione diventa dunque un atto di mediazione necessaria,
tra la propria volontà, gli obiettivi, la situazione contingente e gli strumenti a disposizione della propria fazione. Quest’ultimi in entrambi i casi si dividono tra pacifici ed offensivi, con una maggiore articolazione per quanto riguarda la polizia, le cui unità specializzate offrono un più ampio ventaglio di scelta e armi letali, mentre i manifestanti possono contare solo su personaggi carismatici e oggetti speciali con cui provare a contrastare il semi-monopolio della violenza gestito dai rivali. Quel che subito diventa evidente è quanto la violenza sia più efficace di ogni altra alternativa, ma anche foriera di conseguenze più difficili da gestire. La valutazione finale di ogni missione infatti non si limita al mero raggiungimento dell’obiettivo, che proseguendo nel gioco tende ad assomigliare sempre più spesso a quelli già affrontati, ma anche alla modalità attraverso cui lo si è raggiunto. Il ricorso alla violenza o la risposta pacifica alle provocazioni comportano reazioni diverse da parte dell’opinione pubblica, che a loro volta conferiscono vantaggi strategici nelle missioni successive, ovvero
consentono di abusare della forza senza pagare eccessive conseguenze grazie al vantaggio mediatico acquisito in precedenza.
È SUBITO EVIDENTE COME LA VIOLENZA SIA PIÙ EFFICACE DI OGNI ALTRA ALTERNATIVA, MA ANCHE FORIERA DI CONSEGUENZE PIÙ DIFFICILI DA GESTIRE
Se si somma a questa impostazione l’impatto diverso che l’uso della violenza da parte delle forze dell’ordine genera nei diversi paesi in cui sono ambientate le missioni, il quadro che se ne ricava è quello di una lettura spietata della società e dei suoi meccanismi, in cui l’approccio pacifico alla protesta ed alla contestazione è reso sostanzialmente impossibile da fattori umani e da dinamiche sociali, e può essere raggiunto solo in presenza di un premio che compensi i vantaggi del ricorso alla violenza, nello specifico del gioco rappresentata dagli achievement da sbloccare completando ciascuno scenario senza ricorrere alla violenza.
La complessità che RIOT mira a riprodurre si traduce in altrettanta complessità nell’approccio ludico, spesso fumoso e ostico. E non è da escludere che ciò sia dovuto anche ai mezzi limitati a disposizione del piccolo team di sviluppo (in cui non tutto è filato liscio, come si evince dall’intervista a Leonard che potrete leggere sul numero di TGM in edicola a fine febbraio), ma
è ammirevole la coerenza con cui questi limiti sono stati integrati nel discorso portato avanti dal gioco nel suo complesso. Come avviene per tutte le risposte complesse,
RIOT: Civil Unrest non è un gioco a cui molti saranno disposti a concedere del tempo, ma chi lo farà si troverà di fronte a un prodotto di intrattenimento capace di articolare in una maniera forse unica un proprio messaggio.
Se approcciato come un RTS, RIOT: Civil Unrest farà saltare i nervi a chiunque a causa di meccaniche e controlli imprecisi e a tratti aleatori. Per apprezzarlo bisogna andare oltre, capire i motivi dietro a un gameplay volutamente ostico e poco ammaestrabile ed essere aperti al dialogo di idee che il gioco propone. In quest’ultimo caso non ci si troverà comunque di fronte al miglior strategico disponibile sul mercato, ma si uscirà di sicuro arricchiti dall’esperienza di gioco proposta.