Come il videogioco racconta la depressione

IL VIDEOGIOCO DIVENTA LO STRUMENTO PERFETTO PER RACCONTARE IL PROPRIO DOLORE E PROCESSARLO

Così lei stessa si trasforma in Kay, una ragazza dalle sembianze mostruose e schiacciata dal peso di un irremovibile zaino, bagaglio di emozioni celate alla vista di chiunque (anche la sua) che finirà per esplodere, trascinandola nel buio. La maschera di Jack, compagno di Kay dipinto come un enorme lupo bianco, diventa invece di ghiaccio, dello stesso candore del paesaggio freddo e innevato nel quale si è rifugiato e che serve solamente a nascondere la stessa oscurità che avvolge Kay. È solamente al termine di un pesante confronto che i due, ormai divorati dai propri demoni, si dicono addio: “Kay, ascoltami. Ho bisogno di capirlo da solo. Devo lavorare su me stesso senza appoggiarmi a qualcuno. Dobbiamo farlo entrambi.”

COME SE POTESSI VOLARE

“Alex ha chiamato e ha interrotto uno dei tuoi cicli di ‘provare a fare dei progressi, diventare frustrato per non aver fatto progressi, avere difficoltà a fare altri progressi per via della frustrazione’ e non riesci ancora a scrollarti di dosso la sensazione di fastidio verso te stesso.”

Il videogioco è sì un mezzo di espressione, ma anche di insegnamento. Ormai una grande varietà di studi ha dimostrato la sua efficacia nello stimolo della creatività, nello sviluppo di riflessi e capacità di problem-solving, nell’allenamento della memoria e nello studio delle lingue. Ma si può dire altrettanto in un contesto in cui l’obiettivo è invece la sensibilizzazione verso uno specifico tema? Può un gioco educarci su un tema sensibile?

DEPRESSION QUEST METTE SUBITO IN CHIARO DI NON ESSERE STATO CREATO PER DIVERTIRE

Depression Quest, pubblicato ad agosto del 2014, comincia con una schermata di presentazione: è un titolo che affronta la depressione in un modo molto letterale e non è stato creato per divertire. Zoë Quinn, Patrick Lindsey e Isaac Schankler ci tengono a precisare subito i loro obiettivi, tra cui illustrare nel modo più reale possibile la malattia a coloro che non ne hanno mai sofferto. Perché non è facile rapportarsi con qualcuno in difficoltà se non si ha un’idea chiara di quale sia il suo problema.

Al contrario di quanto si è purtroppo abituati a pensare, la depressione non è sinonimo di tristezza. È un disturbo complesso e dai sintomi eterogenei, causato dall’interazione tra fattori sociali, psicologici e biologici e più comune (ma non esclusiva!) in coloro che hanno attraversato eventi avversi e traumatici della vita. Concetto che Quinn ha fermamente ribadito in una sua intervista pubblicata su The New Yorker: «Ho creato deliberatamente un protagonista che ha a disposizione molto supporto e risorse che io non ho avuto. Abbiamo voluto anticipare la discussione sul fatto che si diventi depressi solo perché si ha una vita difficile. Chiunque può avere la depressione. Alla malattia non interessa quanto te la passi bene o quanto hai sofferto in passato». Il genere delle avventure testuali permette loro di focalizzarsi quasi totalmente sul lato narrativo della storia, raccontata utilizzando la seconda persona singolare. Su una schermata spoglia, quasi fosse una pagina di diario, vengono descritte scene di vita quotidiana alle quali dobbiamo reagire scegliendo, quando possibile, tra le opzioni a nostra disposizione.

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