Da John Romero a Yoko Taro: le rockstar del videogioco

Sunnyvale, California, 1979. Atari è assolutamente contraria a riconoscere il credito dei suoi programmatori. Il potere contrattuale dei creativi va limitato, il culto attorno all’azienda deve rimanere un credo monoteista dove non c’è spazio per Santi e altri aspetti minori della divinità. Warren Robinett non ci sta: lui è Martin Lutero e Adventure è una sua creatura, devono saperlo tutti. Se solo ci fosse un modo per firmare l’opera senza che Atari se ne accorga…

EROI VIDEOLUDICI

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi. È una frase che mi ossessiona fin da quando ho letto Vita di Galileo di Brecht. Perché è assolutamente vero, abbiamo bisogno di eroi che come Warren Robinett alzino la testa e dicano no quando noi non siamo in grado di farlo. Ma è sbagliato, dovremmo essere sempre in grado di farlo. Anzi, non ce ne dovrebbe nemmeno essere bisogno, su una terra ideale. Ma la nostra è appunto sventurata, per cui abbiamo bisogno dei Warren Robinett, anche nelle piccole cose come i videogiochi. L’affaire videoludico è soprattutto una questione industriale. La storia dietro il primo Easter Egg lo dimostra: Atari non voleva che i suoi programmatori emergessero per evitare da una parte che venissero reclutati dalla concorrenza, dall’altra perché limitandone la fama l’azienda mantiene il coltello dalla parte del manico in fase di negoziazione del contratto. Quando Bushnell e i suoi si accorgono che in Adventure è presente la firma di Robinett è troppo tardi, il gioco è già sugli scaffali e Robinett stesso ha già lasciato Atari. Rimuovere la stanza segreta che mostra sullo schermo “Created by Warren Robinett” costa semplicemente troppo, vorrebbe dire stampare nuove cartucce e ricominciare da capo. È allora che Steve Wright, direttore dello sviluppo software, decide di battezzare la pratica come Easter Egg e di renderla una cosa ricorrente nei videogiochi Atari, trasformandola in una caccia al tesoro che ha lo scopo ultimo di aumentare le vendite. Ecco perché siamo sventurati, ecco perché abbiamo bisogno di eroi. Anche quando lo sono solo attraverso le loro opere e nella vita di tutti i giorni entrano in dissonanza con il loro stesso messaggio.

Esistono Egg più vecchi, ma è con Adventure che diventano una questione di cultura pop.

Rinnegare il messaggio dietro un’icona quando questa ci delude è sempre sbagliato, anche quando l’Icona è quella del Peccato. Il personale viaggio dell’eroe di John Romero non è un cerchio, quanto più una parabola dove l’antagonista è Romero stesso, il personaggio auto-generato di cui poi rimarrà vittima e prigioniero. Romero sente praticamente da subito la chiamata all’avventura. Già in giovane età prende l’abitudine di firmare le sue lettere con espressioni come “asso della programmazione” e “futuro riccone”, e si guadagna da vivere pitchando videogiochi programmati da lui stesso alle varie riviste di settore, che all’epoca hanno l’abitudine di allegarli al magazine per aumentare le vendite. Con fatica John riesce ad ottenere un posto in Origin System, la casa di Ultima. Si potrebbe pensare che il viaggio sia finito, e invece John rinuncia a tutto per seguire un collega in un’avventura che si rivelerà fallimentare, costringendolo poi a tornare al software per riviste. Ma è proprio qui che John incontra il suo mentore/amico: l’altro John, Carmack, l’uomo che per tutti gli anni ‘90 ha dettato legge (tecnologicamente parlando) nel videogioco. E che assieme a Romero è il motivo dietro l’esistenza dei file WAD e dell’estrema modificabilità di DOOM, sviluppato appositamente per essere anche una tela per i giocatori oltre che un gran bel pezzo di giocattolo nonostante i borbottii di chi – dovendo curare gli aspetti commerciali – era contrario all’idea.

DOPO IL CLAMOROSO SUCCESSO DI DOOM JOHN ROMERO VIVE COME UNA ROCKSTAR, MA A RIMETTERCI È PROPRIO IL SUO CONTRIBUTO A DOOM II: HELL ON EARTH. E I SUOI COLLEGHI SE NE ACCORGONO

Avanti veloce fino al 1994. John Romero ha 27 anni, e sappiamo tutti cosa succede a tutte le più grandi rockstar a 27 anni. L’ingresso nel Club 27 per lui però non è letterale, riguarda più che altro il suo rapporto con id Software. È passato un anno dal rilascio di DOOM, diventato uno dei primi grossi fenomeni di massa dell’industria e costato diversi punti di prodotto interno lordo alle varie economie mondiali. Il globo terracqueo è ossessionato da DOOM e gioca continuamente in Deathmatch sulle reti aziendali. E John Romero fa esattamente la stessa cosa, quando non è occupato a magnificare DOOM II: Hell on Earth attraverso il suo blog e a presenziare ai vari tornei del gioco. Il problema è che tutto questo lo distrae da quello che nominalmente dovrebbe essere il suo lavoro, al punto che poi in Hell on Earth saranno presenti solo sei livelli realizzati da Romero. Ma soprattutto al punto che il resto di id Software deciderà di rendere John il vero boss finale del gioco, nascondendo una replica della sua testa conficcata su una picca dentro l’Icona del Peccato. L’idea è che questo rimanga un Easter Egg, un segreto per i giocatori taciuto anche allo stesso John Romero. L’eroe ormai vissuto tanto a lungo da diventare il cattivo però non ha perso il suo tocco e se ne accorge. Qualunque altra persona avrebbe fatto una scenata, preteso la rimozione, parlato di iconoclastia. Romero decide di aggiungere un Easter Egg all’Easter Egg, registrando la frase “to win the game you must kill me, John Romero” e inserendola (in reverse) come verso dell’Icona del Peccato. C’è ancora tempo per un ultimo rodeo, nella storia turbolenta tra i due John di id Software. Il tempo di finire i lavori dietro Quake, prima di andarsene per fondare Ion Storm. C’è ancora il tempo per un ultimo atto, un tentativo di capitalizzare il culto attorno alla propria immagine. Daikatana viene annunciato nel 1997 promettendo da subito il più grande gioco di tutti i tempi, corredato da un marketing emotivamente abusivo che annuncia che John Romero sta per renderci tutti le sue personali prostitute. Uscirà solo nel 2000 tra i fischi del pubblico, perdendo il confronto interno con l’altro enfant prodige di Ion Storm, quel Warren Spector dietro Deus Ex. Ma diamine, che bella cavalcata è stata nonostante gli inciampi. Forse soprattutto grazie a questi.

rockstar videogiochi

A proposito del Club 27, in DOOM II c’è una mappa di nome Nirvana dove è possibile raccogliere uno shotgun all’inizio. Impossibile non pensare a Kurt Cobain

Parallelamente dall’altra parte del mondo i videogiochi rispondevano al nome di Nintendo. In senso quasi letterale, vista la tendenza della casa che lascia la sorte al cielo a battezzare i suoi team interni con la sigla R&D seguita da un numero incrementale. Voluto o no, l’effetto è quello di spersonalizzare il fattore umano dietro una Proprietà Intellettuale mettendo l’accento sulla Proprietà Intellettuale stessa. Chiaro, anche Nintendo ha le sue rockstar, ma sono personalità che devono convivere con l’ombra scomoda di Shigeru Miyamoto e che esplodono molto più tardi del papà di Super Mario anche per questo. Satoru Iwata ha la nomea di essere un grandissimo programmatore, ma si ritrova ben presto a dover amministrare prima HAL Laboratory e poi la stessa Nintendo, arrivando alla consacrazione solo in quel momento. Fuori da Nintendo insomma sembra sia più facile per i creativi del Sol Levante reclamare i loro spazi, e non deve essere un caso che i vari Hideo Kojima e Fumito Ueda scelgano di accamparsi sull’altra sponda della riva. O nelle case third party come la Capcom di Shinji Mikami e del suo protégé Hideki Kamiya, famoso per aver realizzato Devil May Cry dopo che gli si era chiesto Resident Evil 4, ma anche per la sua tendenza a polemizzare e bloccare su Twitter (ndr: la cosa tra l’altro è diventata una sorta di meme all’interno della sua fanbase). Ma ecco, parlando di artigiani del videogioco sui social network il personaggio, quello vero, è senza ombra di dubbio Yoko Taro.

QUELLA DI YOKO TARO È UNA PERSONALITÀ STRANA, SUPERFICIALE E CAPRICCIOSO SU TWITTER, MOLTO PIÙ DELICATO E PROFONDO NEI SUOI VIDEOGIOCHI

Si discute spesso sulla differenza tra autore e opera, di come le colpe del primo non dovrebbero condannare la seconda. Non ho una risposta, come non ce l’ho mai davanti a tutti i grandi dilemmi della vita. Non so nemmeno se esista. Quello che posso dire è che nel caso di Yoko Taro sarebbe un errore: il Taro che emerge dai Tweet è una persona difficilmente raccomandabile, un misogino geloso della felicità altrui pieno di perversioni e feticismi nei confronti dei suoi personaggi. Leggere il feed di Yoko Taro senza aver toccato la sua opera è fuorviante, perché è solo dopo aver giocato e compreso la poetica dietro Drakengard e Nier che si arriva a capire chi è davvero Yoko Taro. Twitter diventa una maschera non dissimile da quella che indossa durante le interviste, uno strato superficiale che evidenzia la superficialità di chi non vuole davvero immergersi nella sua produzione. Taro è quel director capace di dichiarare in un’intervista di aver minacciato i modellatori 3D che si sono occupati del fondoschiena di 2B di licenziarli se il loro lavoro non fosse stato perfetto, ma che poi in-game fa in modo che la protagonista si allontani dall’inquadratura scocciata quando si prova insistentemente a guardarle sotto la gonna. Il messaggio di empowerment è inequivocabile, e fa assumere alla precedente dichiarazione una dimensione completamente diversa. Taro è quella persona capace di rispondere al tweet di un ragazzo che lo ringrazia perché ha conosciuto la sua ragazza grazie a Nier dicendo di sperare ogni giorno che gli uomini fighi e affascinanti spariscano dal pianeta. Il tutto mentre i suoi videogiochi parlano anche di cosa vuol dire sparire dal pianeta, del dolore di essere dimenticati e di dimenticare a nostra volta. Prenderesti mai sul serio qualcuno che per un’intervista su Zoom decide di presentarsi con un avatar da VTuber di Kermit la rana? E se la stessa persona, sempre con le fattezze di uno dei Muppet, ti spiegasse che i personaggi delle sue opere soffrono perché il suo obiettivo è immortalare la realtà?

La figura di Yoko Taro ribadisce di nuovo l’importanza delle rockstar nel videogioco. Drakengard non è mai stata una serie campione di incassi, eppure in qualche modo Square Enix nel 2010 pubblica Nier, che ne è a tutti gli effetti un sequel. E nonostante Nier si riveli un flop tanto di critica quanto di pubblico per Automata le cose si fanno in grande, chiamando a supporto addirittura Platinum Games. È una storia sicuramente fortunosa, che ha visto Taro al posto giusto e con contatti con chi stava nelle stanze dei bottoni di Square Enix al momento giusto, ma che senza l’ascendente del suo frontman nei confronti dell’azienda non si sarebbe mai realizzata. È un altro esempio di come il ruolo della rockstar sia molto spesso quello di essere ciò che equilibra gli aspetti più industriali di un videogioco. Robinett è stato l’equivalente di un attivista per il diritto d’autore nel medium, Carmack e Romero hanno lottato affinché DOOM fosse anche dei giocatori. È chiaro che a livello aziendale la rockstar è strumentalizzabile e diventa un potenziale grimaldello nelle mani del marketing, perché quando Hideo Kojima decide di utilizzare il tuo engine e di pubblicare il suo ultimo lavoro sotto la tua etichetta ne guadagna l’etichetta tutta. Ma l’unica altra alternativa è quella di vivere su una sventurata terra che ha bisogno di eroi, ma a cui è rimasto solo lo Spider-Man sviluppato da Insomniac.

Articolo precedente
Anno 1800 Semi del Cambiamento

Anno 1800: le novità di Semi del Cambiamento

Articolo successivo
The Elder Scrolls Online High Isle Anteprima

The Elder Scrolls Online: High Isle – Anteprima

Condividi con gli amici










Inviare

Password dimenticata